Monsignor Edgar Peña Parra - Cristian Gennari
Monsignor Alberto Perlasca firmò senza autorizzazione i contratti che davano a Gianluigi Torzi il controllo esclusivo del palazzo di Londra. Lo Ior, dopo un lungo tira e molla, negò il mutuo richiesto dalla Segreteria di Stato per estinguerne un altro particolarmente oneroso, gravante sullo stesso palazzo. «Se avessero detto subito di no, ci saremmo rivolti ad altri, risparmiando un milione al mese» (in tutto furono sei i mesi trascorsi dalla prima richiesta al no definitivo). Sono i fatti raccontati ieri dal sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, ascoltato ieri nell’aula del processo sull’immobile di Sloane Avenue a Londra, in qualità di testimone.
Il presule ha confermato i contenuti del suo “memoriale” del 2 giugno 2020 e aggiunto altri particolari, rispondendo alle domande dei difensori degli imputati e del promotore di giustizia, Alessandro Diddi (la sua deposizione proseguirà oggi con il controesame). «È stata una Via Crucis - ha sintetizzato -. Anzi, raddoppiammo la Via Crucis, perché il Signore è caduto tre volte, noi siamo caduti sei volte». In sostanza, ha ricordato Peña Parra, «mi insediai nel mio incarico il 15 ottobre 2018, ma venni a conoscenza del problema delle mille azioni con diritto di voto, che consentivano a Torzi di controllare il palazzo londinese (contro le trentamila senza, rimaste alla Santa Sede, ndr) il 22 novembre, quando me ne parlò monsignor Perlasca, che era il capo dell’ufficio amministrativo. Due giorni dopo ho saputo che lo stesso Perlasca aveva firmato i contratti».
Ma, come precisato dall’arcivescovo in risposta alle domande, il monsignore non chiese a lui l’autorizzazione, né aveva il potere di firmare.
A quel punto, ha proseguito il sostituto, «pur non essendo un esperto di finanza, volli vederci chiaro studiando i contratti e formulando una serie di domande con la diligenza del buon padre di famiglia. Chiesi perciò all’ufficio amministrativo di ottenere dei pareri qualificati. Tramite Perlasca, mi giunsero le rassicurazioni dell’avvocato Nicola Squillace, che credevo fosse il nostro avvocato, e invece era un collaboratore di Torzi». Di qui la consapevolezza dell’inganno al quale si tentò di reagire. «Perlasca - ha riferito Peña Parra - suggeriva di avviare una causa, non specificò se civile o penale, ma un processo a Londra era rischioso. Si cercò quindi di uscirne nel miglior modo possibile».
Il 22 dicembre l’arcivescovo fu convocato dal Papa e insieme a Francesco trovò Giuseppe Milanese e Manuele Intendente, i quali gli dissero che con i contratti firmati da Perlasca «avevamo acquisito delle scatole vuote». Perciò si iniziò a trattare con Torzi, al quale in un successivo incontro con il Papa, il 26 dicembre, fu proposto un risarcimento di tre milioni. Torzi, come riferito da Peña Parra, rispose che avrebbe dovuto prima quantificare le spese sostenute per estromettere Raffaele Mincione.
Ma da quel momento partì “la via crucis” con richieste sempre più esose del broker, che arrivarono fino a 25 milioni, per poi scendere a 15, somma pagata a maggio del 2019 in due tranche da 10 e da 5 milioni. Quest’ultima parte della trattativa fu condotta da monsignor Mauro Carlino (anch’egli imputato nel processo e ieri presente in aula) coadiuvato da un gruppo di lavoro. Secondo il sostituto, Carlino «fece il suo dovere con competenza e lealtà». Giudizio ripetuto da Peña Parra per i vertici dell’Aif, l’autorità antiriciclaggio della Santa Sede (René Brülhart e Tommaso Di Ruzza) e per Fabrizio Tirabassi per quanto riguarda questa specifica fase.
Rilievi sono stati espressi invece dall’arcivescovo verso lo Ior, che aveva a lungo promesso il finanziamento, salvo poi cambiare idea per il timore, diceva l’Istituto, di incorrere nel riciclaggio. Nella riunione convocata dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, il 25 luglio 2019, onde arrivare a una soluzione - presenti Peña Parra e i vertici di Ior e Aif (che aveva dato il suo nulla osta all’erogazione) - il sostituto ha detto ieri che i rappresentanti dello Ior non riferirono di aver già sporto denuncia al promotore di giustizia (circostanza che poi innescò il processo in corso) e che lui stesso non ne era quel giorno a conoscenza.