Al supermercato con la mascherina - Fotogramma
I primi segnali di insofferenza, più sui social che per le strade, con minacce di “arrembare” i supermercati per accaparrare cibo. Qualche episodio premonitore, come l’altra notte a Palermo quando un gruppo di una ventina di persone ha davvero provato a scappare da un Lidl con carrelli della spesa piena, per poi essere braccati da polizia e carabinieri. Un video “virale” girato da un balcone di Bari, che dall’alto inquadra un piccolo commerciante e moglie che gridano davanti a una banca «ci servono 50 euro», calmati da due poliziotti che lentamente li allontanano.
Il punto è che alla fine della terza settimana molte famiglie, molte più di quanto si immagina, iniziano ad avere il problema del «piatto a tavola». E la gran parte di questa povertà che ri–emerge impietosa dal ventre del Paese è legata al fenomeno, che per quasi il 50% riguarda le Regioni del Sud, del lavoro “in nero”. Una morsa che strangola: per loro, il ”lockdown” ha significato, da un giorno all’altro, la fine di ogni entrata.
A porre il problema qualche giorno fa è stato il ministro del Mezzogiorno Giuseppe Provenzano, subissato di critiche per la sua richiesta di prevedere tutele, appunto, anche per chi sino a ieri ha lavorato in nero. Il ministro ha dovuto poi precisare che l’intervento da lui immaginato non è una “legalizzazione del nero”, ma la presa in carico di una nuova ampia sacca di povertà non preventivata.
Quanto ampia? I numeri vengono dall’Istat, che nell’ultima rilevazione sull’economia “non osservata” stima la presenza lungo tutta la Penisola di 3milioni 700mila unità di lavoro a tempo pieno non regolare, di cui 2milione 696mila dipendenti. La maggiore incidenza nel settore dei servizi e dei servizi alle persone (colf e badanti, gran parte di questo esercitivo di “invisibili”), in agricoltura (proprio ieri la ministra Bellanova ha chiesto un intervento per regolarizzare i braccianti immigrati, suscitando nuovi attacchi della Lega), nell’edilizia, nel commercio, nei trasporti, in alberghi e ristorazione. Per quelli a “nero totale” la fatica inizia a diventare insofferenza e le reti familiari non bastano.
Il dibattito è enorme e anche aggressivo tra chi ritiene che aiutarli sia uno schiaffo alla legalità e chi, invece, specie al governo, teme la “bomba sociale”. Tra le ipotesi allo studio, allargare le maglie (e la dotazione) del Reddito di cittadinanza. Con tanti rischi e dubbi sul “dopo”, quando si potrà iniziare a riaprire le fabbriche e il “nero” certo non sparirà con la bacchetta magica. Ma tante biografie vanno oltre statistiche, categorie e ragionamenti politico-giuridici e parlano da sole.
C’è la famiglia di tre persone, papà “a nero” in un’azienda di impiantistica, mamma che “a nero” fa le pulizie a ore nelle case private e figlia di 8 anni. I pochi risparmi sono già finiti. «Per ora ci aiuta mia sorella, ma non ce la fa nemmeno lei a fare la spesa ogni settimana per tutti», dicono chiedendo di restare anonimi. Un gruppo di sarte del napoletano che lavora a 3,5 euro l’ora cerca ora le strade per denunciare il “datore” nella speranza di recuperare qualche diritto e contributi arretrati. Gente che qualche mese addietro ha fatto una scelta discutibile, ma sicuramente drammatica: per un centinaio di euro di differenza, tenersi il posto “a nero” – nell’attesa di una regolarizzazione mai arrivata – e rinunciare al Reddito di cittadinanza. Per loro, ovviamente, non c’è cassa integrazione o i 600 euro riservati a parte degli autonomi. Ora hanno bisogno anche di 5 euro di ricarica telefonica per accertarsi che i familiari stiano bene.
Quale sia il margine di tolleranza di questo pezzo d’Italia a “entrata zero” è difficile da dire. Caritas e volontari cercano di individuarli attraverso le reti comunitarie e le segnalazioni dirette, perché sono famiglie che sino a ieri non hanno chiesto mai nulla a nessuno. Le comunità più piccole riescono a sopperire meglio. Don Enzo Miranda, parroco di una piccola frazione di Marigliano, porta personalmente la spesa in case che di colpo sono rimaste col frigorifero vuoto. Ma se il paese è più grande, il porta a porta non è sufficiente. E nemmeno i “numeri unici” comunali, continuamente intasati dalle richieste. Occorrono molteplici canali di contatto, per quanto coordinati. E nelle stringenti misure in vigore, servono maglie più larghe per volontari e operatori della carità, anche con punti di distribuzione ordinati e controllati.