Le cicatrici sul capo narrano di una storia remota e ingarbugliata. Cinquant’anni di strada e orfanotrofi e vita all’addiaccio. Come se la prima condanna fosse stata emessa quando aveva appena quindici giorni di vita e un passante, un buon samaritano, l’aveva raccolto nei pressi di un cassonetto. Ci aveva messo parecchio a finire in galera, quasi non sapesse nemmeno rubare. Il nostro primo incontro è di tre anni fa. Lo ricordo irascibile, scorbutico, ingestibile. Con il cuore immenso connaturato ai semplici. La sua preghiera era il rosario, erano le orazioni consunte della vecchia catechesi, era la pietà tipica di chi non ha mai nemmeno sfiorato un libro. Pur di stare vicino al Cristo, s’era messo a completa disposizione: a lavare le mattonelle e pulire i vetri con le inferriate, per fare di quella sala di galera la nostra piccola chiesa, così simile a un “ospedale da campo dopo una battaglia”. Dopo un’infinità di battaglie.Il suo cruccio? Lei, quella donna mai conosciuta e che mai chiamò “mamma”. La bestemmiava nelle sue preghiere, condannandola per quel gesto folle dell’abbandono. D’altronde anche nella Scrittura la ribellione anticipa la comprensione, le urla fanno da preludio ai canti, e prima della Terra Promessa c’è l’agonia dell’Egitto. Lo lasciavamo fare, dire, vociare. Mi ricordava un vecchio rudere di montagna: un rudere, certo, ma abbastanza prezioso da meritare di venir restaurato, avendo cura prima d’imbragarlo. Noi abbiamo costruito l’imbragatura, il resto fu opera di quella Grazia non sempre del tutto “comprensibile”. Ben presto, nel suo cuore al Dio minaccioso è subentrato il Dio della consolazione, il raggio di luce che gli ha permesso di scandagliare l’abisso della sua umanità. E, riconciliatosi con Dio, si è riconciliato con i fratelli. Si è riconciliato con il volto ignoto della mamma mai conosciuta. Dalla maledizione al silenzio. Lui figlio che perdona la madre: «Oggi voglio pregare per mia madre. Chissà perché l’ha fatto...». E il perché di un gesto è l’avventura più ostica da braccare tra il ferro e il cemento di una galera. È uscito dal carcere l’altro giorno. Fa il giardiniere in un’oasi di spiritualità, dimostrando una spiccata sensibilità per il bello. Proprio lui, che nella sua prima vita ha conosciuto soltanto la bruttezza. Ha portato con sé le poche, piccole reliquie di una vita. Ogni tanto borbotta: «Se la mia mamma avesse abortito, ogni non sarei qui. Che spettacolo: grazie, Dio!». Riconciliato con Dio, con la sua mamma, con se stesso. Ai vecchi compagni di galera ha lasciato un biglietto sull’altare, quasi un preludio di Pasqua: «Vivo per stupirmi ancora».
(Storia raccontata da don Marco Pozza, Padova)