martedì 5 agosto 2014
​Eugenio Sidoli, capo della Philip Morris Italia affronta a tutto campo il tema del fumo: salute, educazione, cultura, affari
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È un calo lento, ma inesorabilmente costante. Il mercato delle sigarette perde, oramai da quindici anni, tra il 2 e il 3 per cento ogni anno. In Italia nel 2002 si vendettero 105 miliardi di sigarette, oggi se ne vendono 30 miliardi in meno. E una delle ragioni del crollo si agita dietro il pugno di ferro dell’organizzazione mondiale della sanità. «Sui danni legati al fumo non c’è più nulla da dire. Fumare fa male, di sigarette si muore. È così: c’è una relazione tra fumo e cancro, tra fumo e malattie cardio-vascolari», ammette senza inutili giri di parole Eugenio Sidoli, il capo della Philip Morris Italia. È il suo stile: costruire attorno al business una cultura aziendale che si fondi sull’integrità. E ora lo sottolinea con venti parole. «Ho il dovere di far sapere ai consumatori quali sono le conseguenze potenziali sulla loro salute. Con parole nette. Senza omettere nulla». Siamo nel centro di Roma, in una delle roccaforti della multinazionale del tabacco. Gli ambienti sono moderni, colorati, chi ci lavora è giovane e si coglie un certo entusiasmo. L’ufficio di mister Malboro è sobrio, ma elegante: un tavolo riunioni, una macchina del caffè, una parete con cento pacchetti di sigarette che raccontano decenni di storia. Una storia che rischia di chiudersi? Sidoli risponde di getto: «Tra dieci anni sarà un altro mondo: si sta aprendo un vuoto, ma – come succede sempre – quel vuoto potrebbe essere riempito». Si ferma su quell’ultima parola. Poi la ripete quasi sillabandola. «Già riempito». Il manager ha un sorriso leggero e enigmatico mentre mostra un apparecchietto nero. «Si chiama Iqos, è la nuova frontiera del tabacco. Guardi...». All’improvviso si parla solo della nuova sfida. Sidoli tira fuori dalla tasca un mini-pacchetto. Dentro ci sono venti sigarette in miniatura. Ne prende una e la infila in Iqos. «Si fa così. Ora una lama scalderà il tabacco. Ha capito bene, ho detto scalderà... Ecco la svolta: non c’è più combustione, la sigaretta non si accende e i danni alla salute potrebbero essere decisamente ridotti. Ma parallelamente c’è il gusto, si consuma tabacco come con le sigarette tradizionali». Parliamo da un’ora. Di fumo e di sfide commerciali, ma anche di etica e di coscienza. Sidoli racconta la sua vita in Philiph Morris, la sua passione per quel lavoro, la sua voglia di difenderlo da giudizi sempre inevitabilmente severi. «Sono entrato in azienda nel 1993, avevo un bambino di cinque anni e tutti i giorni mi interrogavo sullo stesso punto: a scuola sentirà le maestre che parleranno del fumo che uccide... Mi dicevo: "che penserà del papà che lavora e vive in un’azienda come Philiph Morris?"». Sidoli aspetta l’inevitabile domanda. Che risposta si dava? «Una sola. Mi dicevo: "una brava persona che lavora dentro un’industria complessa può fare solo bene". Vede, è molto facile stare fuori e giudicare gli altri. È molto più difficile entrare dentro un business e cercare di migliorare le cose perché ci credi. L’etica è fatta dagli uomini e la mia etica è tutta in una parola: integrità». Sidoli pesca nella memoria e racconta l’evoluzione della strategia della comunicazione di Philiph Morris: «Fino al ’90 si negava che ci fosse una relazione tra fumo e cancro. Poi, nel ’95, arriva la svolta. Netta. Dirompente. Louis Camilleri, origini maltesi Ceo di Philiph Morris fino allo scorso anno e cittadino del mondo ripeteva una frase... "L’unica sigaretta che non ti uccide è quella che non ti accendi". Quella frase è anche mia. Louis è una grande persona, è un pezzo di storia della mia azienda, è da sempre un punto di riferimento. E poi il nuovo corso è iniziato con lui». Sulla grande scrivania è rimasto quel mini pacchetto di mini sigarette. Vogliamo capire di più e Sidoli non si sottrae. Spiega il progetto. L’arricchisce di particolari fino ad ora inediti. Si parte a dicembre in due sole città nel mondo. Una è in Giappone, l’altra è Milano dove sono già pronte mille tabaccherie». L’Italia guida insomma il Progetto. Anche perché tutto verrà prodotto qui. «La fabbrica sta nascendo alle porte di Bologna e sarà pronta entro il 2016: l’investimento è stato massiccio: 2 miliardi di euro in ricerca e sviluppo e 500 milioni stanziati. Mai un’industria straniera aveva messo una cifra così per un "greenfield" nel nostro Paese», annota Sidoli. «Daremo lavoro fino a seicento persone e – quando tutto girerà a pieno regime – tireremo fuori 30 miliardi di stick in un anno; il 6 per cento del consumo di sigarette europeo». I numeri fanno pensare e intanto domande e risposte si accavallano. A che quota puntate? «La nostra scommessa è partire con il 2 per cento del mercato. Sarebbe un risultato incredibile». Poi abbozza un paragone che aiuta a valutare la portata del progetto: «La sigaretta elettronica è arrivata nel picco alto al 7 per cento del mercato, oggi ha ripiegato ed è tornata all’uno. Ma quello che vorremmo portare al mercato è solo il primo di una generazione di prodotti nuovi. È come con i telefoni cellulari: lei ricorda com’erano quando partirono? Ricorda le dimensioni, la potenza, la praticità? Ricorda quelle strane valigette che qualche manager in giacca e cravatta si trascinava dietro?». La forza del Progetto prende forma dietro una sola speranza che qui vogliono trasformare in certezza: ridurre in maniera decisa i danni alla salute. Anche perché – secondo le stime dell’organizzazione mondiale della Sanità – nel XXI secolo vi saranno fino a un miliardo di morti premature legate al fumo. Tutte completamente prevenibili. I danni da fumo, insomma, fanno venire i brividi e ora – anche in Italia – arriva la prima sentenza: stroncato da un tumore ai polmoni a 54 anni dopo aver fumato, in una quarantina di anni, un milione di sigarette, il tribunale civile di Milano condanna la British American Tobacco spa a versare poco meno di un milione di euro alla moglie e ai tre figli. Sidoli preferisce non commentare una sentenza di primo grado. Ma non rinuncia a ripetere la sua linea con parole nette: «È ora di fare una battaglia insieme. Di unire istituzioni, famiglie e industrie del tabacco per costruire una società con meno fumo per i nostri figli. Serve un impegno corale, serve una responsabilità collettiva; non sentenze esemplari. Noi siamo pronti a fare la nostra parte «con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione», ma non basta. Serve un grande patto per prevenire ed educare. E serve farsi guidare dalla scienza e immaginare strade nuove. Da diciotto anni nel super-stabilimento di Neuchatel in Svizzera una équipe di 400 cervelli studia. Ci sono medici, biologi, fisici, matematici. I risultati? Sidoli non si sbilancia: «Tra sei mesi il quadro sarà chiaro, ma vedrete sarà l’inizio della rivoluzione. E se come immagino questo prodotto dimostrerà una sensibile riduzione del danno il mio sogno sarà un po’ meno lontano». Sogno? «Sì, tutto il mercato potrebbe convertirsi a prodotti simili a questo». Proviamo a immaginare un mondo senza le sigarette di oggi. E proviamo a parlare con Sidoli dei giovani e il fumo partendo da chi gli è più vicino. Suo figlio fuma? «Ho perso questa battaglia, ha iniziato a fumare a quindici anni». Una pausa leggera e una smorfia quasi amara. «Lui sa che gli fa male, io spero che un giorno smetta. Certo serve forza di volontà, quella volontà che a tanti ragazzi manca. Sono fragili, insicuri. Vorrei dirgli: non fumate, non si cresce così, non è una sigaretta che vi fa diventare grandi». Lo sfidiamo: mettere un divieto? «Sarebbe un deterrente falso e poi i divieti non mi piacciono. Bisogna lavorare come genitori, parlare, spiegare. Io ci ho provato e ho fallito. Io non fumo e lui sì». Ci alziamo per salutarci. E Sidoli ci "regala" un’ultima riflessione. «Non credo in un mondo senza vizi, senza emozioni, senza rischi, dove a imporsi è sempre la razionalità. Credo in un mondo di colori che non vengono mai dalla testa. Il mondo perfetto non c’è. È sulle imperfezioni che il mondo si sviluppa e prova a migliorare. Speriamo che vada così anche con questa nostra nuova avventura».
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