La baraccopoli nel cuore della Capitanata continua a crescere. L’agricoltura in nero, che sottrae svariati miliardi alle casse dello Stato e schiavizza i migranti africani più vulnerabili, pare non conoscere crisi. Al "grand ghetto di Rignano", come lo chiamano con ironia i braccianti africani che ci vivono dalla fine degli anni 90, in questi giorni ci sono 1.500 persone, quasi tutti dell’Africa francofona occidentale, regolari e irregolari lasciati a spasso dalle fabbriche del nord o profughi dell’emergenza Nordafrica che da 18 mesi vivono da senza dimora.Tutti sbarcano il lunario nei campi a raccogliere per 3,5 euro in nero a cassone i pomodori, l’oro rosso. Tutti vittime della crisi e con un drammatico bisogno di mandare soldi alle famiglie a casa. Quindi ricattabili e sfruttati dal caporalato, sistema fuorilegge atavico che, nonostante la legge per contrastarlo entrata in vigore nel 2012 e i primi processi avviati, continua ad essere radicato e ad arricchire imprenditori mascalzoni facendo pagare il conto ai disperati. Il ghetto anche d’inverno arriva a ospitare 400 persone e non è nato a caso. Attorno a cinque tuguri in muratura è sorto un villaggio africano di baracche di legno, plastica e materiale da riciclo che caporali e datori di lavoro hanno piazzato strategicamente in una terra di nessuno tra Rignano Garganico, Foggia e San Severo. Nell’area sono state divelte tutte le indicazioni stradali. Il primo centro urbano dista 17 km e in questo luogo, dove si dorme gratis, ma in condizioni inumane alleviate solo da sei bagni chimici messi dalla regione e dai serbatoi d’acqua potabile che non basta mai, si entra grazie ai caporali. Poi tutto dipende da loro, dalla ricerca del lavoro al trasporto nei campi al cibo. Ogni caporale trattiene anche la metà dei 50 euro in nero sudati in giornate da 12 ore. Sono loro a decidere tempi, importi e modalità dei pagamenti. O a non pagare. Chi non ci sta o importuna il datore spesso viene intimidito ed emarginato o pestato. A distanza di sicurezza, la Caritas di Foggia con il "Progetto presidio" - che la Cei con la Caritas italiana ha avviato nel biennio ’14-’15 per contrastare l’illegalità e aiutare i migranti - ha sistemato un tendone che fa da primo ascolto e rimanda poi i migranti allo sportello della stazione ferroviaria per i colloqui.«Finora – spiega don Francesco Catalano, vicedirettore della Caritas di Foggia – abbiamo intercettato 70 persone che chiedono soprattutto regolarizzazione, lezioni di lingua e cure mediche. L’80% è arrivato via Lampedusa, gli altri da Spagna e Francia».Presidio sta coinvolgendo lentamente la rete delle associazioni. «Svuotare il ghetto – prosegue don Catalano – è obiettivo comune. Ma è dura, i migranti temono di non lavorare senza caporali. Dentro, anche se la gente prova a vivere dignitosamente in autogestione, la situazione è insostenibile dal punto di vista igienico-sanitario. Ci sono anche alcune famiglie con bambini in estate».Entriamo. Tra le baracche scorgiamo bancarelle e bar improvvisati provvisti di parabole. Un tugurio ospita una decina di nigeriane dedite alla prostituzione. Circola droga leggera e la sera arrivano giovanotti italiani delle cittadine limitrofe in cerca di spasso low cost. Senza contare chi viene qui a vendere bici, auto e moto perlopiù rubate e in giro nella terra di nessuno prive di assicurazione. Una sentinella in motorino ci ferma e, salutando il sacerdote, chiarisce che foto e riprese sono vietate.Lo ripete anche Michelle, nome inventato, matrona camerunense di mezza età, che pure ci accoglie nella sua baracca-ristorante dove vive tutto l’anno che spiega perché molti non se ne vanno. Vedova da anni, è arrivata dieci anni fa ed è regolare. Aveva un ristorante in patria, sognava di aprire una società di export di abiti dall’Italia, ma poi ha ripiegato sul ghetto. Oggi non fa più buoni affari. «Una volta eravamo in pochi, oggi ogni etnia ha il suo ristorante e i camerunensi sono pochi. Mi sono stancata però non posso tornare a mani vuote. Ho cresciuto quattro figli e li ho fatti studiare al mio paese, ma se non porto i soldi mi chiedono perché sono partita e non lo sopporterei». Arriva Ngor, una delle armi più efficaci del Presidio. Senegalese cinquantenne è arrivato in Italia 20 anni fa per studiare, oggi è cittadino italiano.«A Bergamo ho lavorato prima nell’edilizia e poi in fabbrica per 17 anni. Ma nel 2010 l’azienda ha chiuso e ho deciso di lavorare nelle campagne. Metto la mia esperienza al servizio dei miei fratelli. Molti non hanno il permesso e non conoscono l’italiano oppure hanno perso il lavoro. Sono vulnerabili e sfruttati». Presidio ha scelto di proporre loro legalità e dignità, uniche alternative a questa schiavitù del nostro tempo.