giovedì 28 agosto 2014
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Mamma e straniera. Non sempre l’accostamento  si può fare, anche se le immigrate non vorrebbero proprio rinunciare alla famiglia numerosa. Troppe le difficoltà economiche, le limitazioni negli orari a cui sono sottoposte e le mancanze nei servizi all’infanzia. Ancor più se sei sola in terra straniera. Va principalmente spiegata così la lenta discesa della fecondità delle donne immigrate. Un figlio? Forse, tuttavia già al secondo ci si pensa. E poco importa se si proviene da culture in cui avere molti bimbi è la normalità. La questione di fondo è proprio il contesto sociale e la solitudine in cui le donne immigrate vivono e le rinunce occupazionali che un figlio comporta. Solo qualche anno fa, difatti, il loro numero di figli quasi doppiava quello delle italiane, oggi invece continua a diminuire: da 2,37 nati per donna si è passati a 2,19. Nel 2013, così, si è avuto il numero più basso anche di neonati stranieri, solo 2 su dieci. È ascoltando le coppie straniere che si comprende la sofferenza di una scelta così innaturale, ancor più quando per anni desideri un bambino che non arriva. «Abbiamo tanta voglia di avere un secondo figlio, ma non vogliamo fare il passo più lungo della gamba». Jonathan Crux, argentino di 26 anni, e sua moglie Jaquelin, peruviana, oggi si godono Jonathan junior arrivato due anni e mezzo fa. Dal 2004 nel nostro Paese, lui lavora come magazziniere a mille euro al mese e lei prima del parto faceva la centralinista. «Da quando sono rimasta incinta sto a casa – dice – perché non so a chi lasciare mio figlio e poi non posso nemmeno fare assistenza notturna agli anziani». Perciò da settembre, quando Jonathan andrà all’asilo a pagamento, lei tornerà a lavorare part-time. Un nido a tempo pieno infatti, «mi costa la metà di quello che guadagno», ammette il ragazzo; in questi anni hanno diviso l’appartamento con altre tre coppie pur di riuscire a dare al figlio il necessario. Un fratellino? Non si può, «ma fa male mettere limiti alla Provvidenza», dicono. Vivono ancora «troppo con il bilancino», pagando debiti pregressi, per avere «di nuovo il peso sul cuore» di non riuscire a sbarcare il lunario. Sa bene invece questa sofferenza e la sensazione di essere sola e incinta in una nazione straniera, Maria Cecilia Caceres Siguas, arrivata dal Perù nel 1990. E soprattutto conosce l’amarezza di vedersi sbattere la porta in faccia dal suo datore di lavoro, quando anni fa stava per partorire. Prima l’anziana le ha suggerito di trovare un posto dove lasciare il piccolo di giorno, «perché sono sicura – disse – che il pianto del bimbo mi darà molto fastidio ». Poi quando dopo un mese è tornata per riprendere, come da accordi, il suo posto, «mi è stato detto che preferiva la mia supplente, sola e più libera». Così appena il figlio è cresciuto ha deciso di dare alle donne immigrate un sostegno alla maternità con la ludoteca Figli del mondo, una cooperativa che nel quartiere Primavalle a Roma offre prezzi speciali e flessibilità d’orario per le immigrate. «Il mio non è un lavoro, è l’aiuto che non ho avuto io con mio figlio», ammette Maria Cecilia. Al secondo non ha mai pensato, perché non poteva «dedicare il giusto tempo a un altro bimbo».

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