La sentenza della Consulta sulle droghe leggere rende più difficili le inchieste ed «è urgente una nuova legge che metta chiarezza». È la preoccupata riflessione dei magistrati calabresi che hanno condotto la recente operazione "Mediterraneo" contro il clan Molè. Ne abbiamo scritto ampiamente due settimane fa, sottolineando gli affari della ’ndrangheta nel gioco d’azzardo, ma il gruppo non ne faceva di meno con la droga, in particolare hashish. Ebbene proprio in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale, il gip ha respinto una trentina di richieste d’arresto sulle ottanta presentate dalla Dda di Reggio Calabria. Nell’ordinanza di custodia cautelare viene proprio citata la decisione della Consulta dello scorso 12 febbraio (vedi scheda) che ha dichiarato incostituzionali due articoli del decreto legge 272 del 30 dicembre 2005 che aveva di fatto equiparato da un punto di vista penale droghe pesanti e leggere (la Consulta non entra nel merito ma boccia solo il metodo usato). E il gip cita la sentenza in quanto, scrive, «buona parte delle transazioni ricadute sotto la lente investigativa nel presente procedimento hanno riguardato sostanza stupefacente del tipo hashish». Già, perchè il clan Molè sulla piazza di Roma si era specializzato proprio in questa sostanza, "commercializzando" molti quintali all’anno sia nella Capitale che in provincia, utilizzando anche personaggi non direttamente legati alla cosca come l’attore romano Stefano Sammarco. E sono proprio alcuni di questi ad aver evitato il carcere. Come scrive sempre il gip, proprio la sentenza della Corte ha ridotto per le droghe leggere la pena prevista da sei a venti anni a quella da due a sei anni. Ora questo "consente", così scrive il gip, la custodia cautelare in carcere, cioè la rende discrezionale e non più automatica come di fatto era prima. Inoltre, spiegano sempre i magistrati della Dda reggina, l’intervento della Consulta ripristinando il vecchio testo del Dpr 309 del 1990, che era stato profondamente modificato da Dl 272, ha reintrodotto la distinzione tra detenzione a fini di spaccio e quella per uso personale, ma senza mettere dei numeri, e la Consulta certo non poteva farlo. Ma questo rende tutto più complesso. Infatti tutte le inchieste sui traffici di droga si basano soprattutto sulle intercettazioni telefoniche nelle quali emergono le proposte di vendita e di acquisto. Si usano parole di copertura e quasi mai si citano quantità precise. «Nelle intercettazioni – spiega il sostituto procuratore, Roberto Di Palma che ha condotto l’inchiesta – si parla di salami o altro, ma non c’è dubbio a cosa si riferiscano. Ma non sappiamo a quanto ammontino e quindi non si può automaticamente arrestare. Perchè ora se non si capisce si deve applicare la modica quantità per uso personale che invece prima era esclusa». Infatti finora era bastato l’uso delle intercettazioni per eseguire gli arresti, come dimostra il lungo elenco di sentenze della Cassazione citato nell’ordinanza per il clan Molè. Ma subito dopo arriva la citazione della decisione della Consulta che cambia le regole. Così, come spiegano i magistrati reggini, ora le intercettazioni non bastano se poi non ci sono prove precise, in pratica se non si trova la droga. «È dunque necessaria un’ulteriore attività probatoria. Tanto lavoro in più», si sfoga il pm. Così solo se dalle intercettazioni emerge con chiarezza un traffico di quantità ingente scattano automaticamente gli arresti, negli altri casi sono diventati facoltativi. «Nel dubbio "pro reo", cioè a favore dell’indagato», sottolinea Di Palma. E quindi niente arresto. L’inchiesta della Dda di Reggio Calabria ne è la prima clamorosa applicazione. Ma basterebbe poco per fare chiarezza. «Basterebbe un numeretto – è l’auspicio del magistrato –, un criterio oggettivo per stabilire cosa è uso personale e cosa no. Oggi non c’è. Ma si può fare, basti ricordare i limiti di velocità o il tasso di alcool nel sangue. E non mi sembrano questioni più gravi delle droghe».