mercoledì 8 giugno 2011
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Comunque vada a finire domenica e lunedì prossimo, la domanda resterà sempre la stessa: chi garantirà all’Italia un futuro energetico più sicuro? È il paradosso nascosto nel quesito referendario numero 3: nel momento in cui l’opinione pubblica torna ad esprimersi, 24 anni dopo, sull’atomo, il grande interrogativo rimane quello sulla certezza degli approvvigionamenti. Quali fonti saranno cruciali per garantire uno sviluppo all’altezza delle attese? E che garanzie daranno alle comunità locali in termini di impatto sul territorio? Nel 1987 aleggiava sulle urne il fantasma di Chernobyl, oggi pesano come un macigno le immagini recenti dell’incidente di Fukushima. Ancora una volta tutto si giocherà, verosimilmente, sul fattore sicurezza. Con la "s" maiuscola. Non c’è nulla da fare: l’atomo resta uno dei pochi temi capaci di scatenare, nella nostra opinione pubblica, timori ancestrali o (specularmente) entusiasmi spesso interessati. In realtà, la sfida del referendum rappresenta innanzitutto uno spartiacque sulla politica energetica dell’Italia.La scommessa è legata al cosiddetto mix energetico. Nei piani dell’attuale maggioranza di governo, gli approvvigionamenti di energia per il nostro Paese sarebbero stati per il 50% costituiti dai cosiddetti combustibili fossili (gas, olio e carbone) per il 25% dalle fonti rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico su tutti) e per un altro 25% dal tanto agognato atomo. L’obiettivo in questo caso era la posa della prima pietra della nuova centrale entro il 2013 e l’entrata a regime dei nuovi impianti di terza generazione per il 2018. Viste le incognite presenti e future, non ultimo l’incrocio pericoloso tra il quesito referendario e il Piano energetico nazionale (previsto comunque, decreto omnibus a parte, dalla legge 133 del 2008) il mix energetico ideale nei piani del governo e della grande industria sta già cambiando. Dalla formula 50+25+25, infatti, dovremmo passare alla formula 33+33+33: un terzo gas, un terzo carbone, un terzo rinnovabili.Le imprese, che in un primo momento avevano creduto al possibile ritorno nel mercato nucleare dell’Italia, hanno mostrato saggezza nell’evitare di fare investimenti sconsiderati sui nuovi reattori e adesso sono pronte a giocare d’anticipo, sostenendo con maggior convinzione la crescita delle fonti verdi. L’esempio viene dalla tecnologia solare, dove il costo medio dei pannelli è sceso del 20% e si punta ad arrivare al traguardo dei 9-10mila megawatt prodotti entro fine anno. Lo stesso discorso vale per l’eolico, l’idroelettrico e il geotermico: per ciascuno dei settori, andranno ricalibrate meglio le potenzialità e gli incentivi previsti da parte dello Stato. La rivoluzione «pulita» dell’energia (anche se restano forti incognite legate alle importazioni di carbone) andrebbe certamente incontro alle sensibilità di un’opinione pubblica che, secondo i sondaggi, valuta positivamente l’avvento della green economy: potrebbe arrivare l’ora dei piccoli impianti capaci di servire comunità limitate, in grado di rispettare i vincoli ambientali e paesaggistici e di garantire uno sviluppo sostenibile.L’esatto opposto, in teoria, di quanto avvenuto con l’atomo, per tre anni considerato un oggetto misterioso e alla fine penalizzato dalla mancanza di ascolto dei territori e dalla poca trasparenza sui siti prescelti e sul deposito nazionale delle scorie.Resta da definire, una volta che l’esito referendario sarà ufficiale, una nuova missione energetica per il sistema Paese: l’obiettivo sarà ancora una volta garantire maggiore autonomia per soddisfare i consumi di famiglie e aziende, diversificando i fornitori (soprattutto sul versante del gas) e alleggerendo la pressione sulle importazioni. Con l’atomo tutto questo sarebbe stato possibile, sulla carta, ma non prima di una decina d’anni e a patto di sostenere costi iniziali molto alti. Qui si torna al parallelo tra il 1987 e il 2011, tra il dopo Chernobyl e il dopo Fukushima. Qualcosa è cambiato, oggi, rispetto ad allora. Negli anni Ottanta, la mappa del nucleare era così ambiziosa da prevedere una ventina di siti, ritirati in fretta e furia quando si seppe che l’80% degli italiani (due su tre andarono a votare in quell’occasione) aveva chiesto la chiusura delle centrali attive di Caorso, Trino Vercellese, Latina e Garigliano. In questa legislatura, nonostante i proclami altisonanti, mai nulla è trapelato ufficialmente sulle località interessate dalle possibili centrali. Fosse per prudenza o per paura, saranno gli elettori a stabilirlo.
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