Sit-in per la pace venerdì sera a Torino - Ansa
Dov’è la vittoria? Il 24 febbraio 2022 la Russia lanciava «l’operazione militare speciale» in Ucraina. Era la guerra di Vladimir Putin, dichiarata a un Paese confinante con l’Europa. Non ha vinto nessuno, due anni dopo, nonostante i primi mesi di forte propaganda bellica e le alterne vicende sul campo. «Dov’è la vittoria?» domanda oggi il movimento pacifista che tornerà in piazza, convocato dal cartello di associazioni che fin dall’inizio ha chiesto il cessate il fuoco immediato. Tregua subito. Adesso la richiesta è ancora più pressante, visto il senso di assuefazione al conflitto che pervade l’opinione pubblica, sempre più contraria alla battaglia eppure nella maggior parte dei casi silente.
Perché? «Perché ogni giorno che passa è tutto drammaticamente più difficile» racconta Flavio Lotti, instancabile animatore della Tavola per la pace, che ha ispirato la Perugia-Assisi e tante iniziative non violente. «Il problema più grande è che la politica si sta mostrando sorda, incapace di rialzare la testa, come se non fosse in grado di risolvere i problemi. Abbiamo delegato ai signori della guerra di trovare una soluzione. L’unica opzione che si sta accreditando come possibile è appunto quella della vittoria militare, della distruzione del nemico. È una logica che accomuna Putin, Netanyahu, Hamas. Chi sta trattando oggi per impedire la catastrofe finale a Gaza? I capi dei servizi segreti...».
Se questo è lo scenario, rischia di essere una prospettiva disarmante anche per chi oggi sarà in piazza e nelle strade, in oltre 120 iniziative organizzate in altrettante città italiane da “Europe For Peace”, dalla “Rete italiana Pace e disarmo”, dalla Coalizione “Assisi Pace Giusta”. Eppure si muoveranno in tanti, da Torino a Bari, da Napoli a Firenze, da Roma a Palermo, da Genova a Padova, da Ancona a Verona, da Bologna a Perugia. «Nella società resta la voglia di manifestare per una pace giusta, dalla parte delle vittime civili delle guerre. Tutte le vittime» spiega Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci, che sogna di ripartire dalla lezione di Alex Langer e che oggi porterà in strada tanti giovani. È in salute il movimento pacifista oppure esce fiaccato dall’assenza di interlocutori pronti ad ascoltarne le istanze?
«Il movimento c’è e vive una doppia fatica: quella di farsi voce di un intero popolo verso le istituzioni e soprattutto quella di fare i conti con l’imbarbarimento culturale di questi tempi. Per arrivare a una piattaforma condivisa, per salvare vite umane, bisogna stare attenti anche alle virgole. È possibile?». La preoccupazione, detta in altri termini, è che si sia già deciso di risolvere le controversie con la guerra e non con la diplomazia. «Guerra chiama guerra - sottolinea Pierangelo Milesi, delegato delle Acli per la pace, l’ecumenismo e la vita cristiana -. Si sta riscrivendo il nuovo ordine globale e pare diventato necessario tornare alla brutalità delle prove di forza. C’è una sorta di oblio lessicale del termine pace». Due anni di resistenza dell’Ucraina e di contemporaneo isolamento della comunità internazionale nei confronti della Russia non sono state sufficienti per tornare alla normalità ma a preoccupare, spiegano dalle Acli, «è il clima culturale. È in corso un attacco alla legge 185 sulle armi: si sta tornando a logiche opache, facilitando l’export di chi produce e rendendo meno trasparente il rapporto con le banche che finanziano i commerci bellici».
Tante realtà dell’associazionismo laico e cristiano rimangono in prima linea nel denunciare le strategie sbagliate seguite in questi due anni di conflitto ucraino, le sottovalutazioni in corso e la crescente, mancata consapevolezza da parte dei governi, in particolare europei, su quello che sta succedendo. Per Sant’Egidio, «l’Ucraina ha bisogno di pace e la solidarietà ne tiene viva la speranza, quando tutto intorno parla di morte. Per alimentarla c’è bisogno di un sostegno largo e generoso, che non può indebolirsi ma al contrario deve rafforzarsi: a due anni dall’inizio della guerra non dimentichiamo Kiev, perché l’aiuto umanitario, ne siamo convinti, è realizzare già da oggi un pezzo di pace e di futuro». L’inquietudine degli operatori di pace è la stessa dei volontari e delle persone che lavorano nelle organizzazioni impegnate a livello sociale, a tutti i livelli. «Assistiamo alla dimostrazione della fragilità degli equilibri internazionali, mentre la via della diplomazia e della soluzione pacifica dei conflitti diventa sempre più difficile da percorrere» fa notare Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore che rappresenta oltre 100 reti nazionali di Terzo settore, e che aderisce alla giornata odierna di mobilitazione. «In questo quadro - continua - è lo stesso principio di autodeterminazione dei popoli a perdere riconoscimento, se non addirittura ad essere negato».
Il salto di qualità che chiede il popolo della pace emerge bene dalle parole di Franco Vaccari, fondatore e presidente di Rondine Cittadella della Pace. «Proprio oggi, nel nostro villaggio in Toscana, una ragazza ucraina e una ragazza russa ci hanno coinvolto in un momento di condivisione su questi due anni di guerra. È vero, il dolore è terribile, ogni giorno contiamo i morti. Ma non è morta la speranza e la voglia di costruire. Noi tutti osiamo sperare il futuro, non lasciamoci sopraffare dall’odio». Per Vaccari, «siamo chiamati a parlare di pace tutti i giorni, non solo quando c’è la guerra. E soprattutto, di fronte a questa recrudescenza del conflitto, dobbiamo ripartire dai giovani, che si stanno forgiando in questi anni difficili».
Segnali come quelli di Rondine ieri o del Campidoglio due giorni fa, quando la Tavola della Pace ha riunito un centinaio di amministratori locali, da Roberto Gualtieri a Dario Nardella, restituiscono la sensazione che la pace sia un itinerario possibile se nasce dal basso, «perché è responsabilità anche nostra - riprende Lotti -. Quella dei sindaci è forse l’esperienza politica più vicina per chi fa opposizione alla guerra. Nel frattempo, in assenza di uno sbocco istituzionale di alto livello, il sentimento di frustrazione per non essere compresi si è allargato in questi ultimi mesi». L’interrogativo più grande lo rilancia Angelo Moretti, portavoce del Mean, il Movimento europeo di azione non violenta. «Cosa significa resistere al conflitto, oggi? Significa innanzitutto prendere atto che il popolo ucraino adesso è l’unico popolo che sta morendo per l’ingresso in Europa. Intanto, stanno nascendo i corpi civili di pace, la società civile locale nonostante tutto è in fermento. Non dobbiamo restare indifferenti al grido delle terre attaccate da Mosca. Penso sia questo il nostro compito: per costruire la pace occorre prima di tutto mettere in campo una grande resistenza spirituale».