L'inaugurazione di una panchina rossa a Torino, lo scorso novembre - Ansa
Il movente è sempre lo stesso – non sono casi isolati, non patologie conclamate, non follie – e suona così: «Questa donna è mia, la sua vita mi appartiene, ne dispongo. Se si allontana, se fa qualcosa che non mi va a genio, la vita gliela tolgo». Ed ecco di nuovo, nello spazio di tre giorni, un’impressionante cascata di femminicidi: quello di Nicoletta e Renée a Cisterna di Latina, madre e figlia, “colpevoli” d’aver ripreso in casa a vivere Desyrée – 22 anni come Giulia Cecchettin –, che aveva troncato la sua relazione col fidanzato (all’anagrafe Christian Sodano: ha preso la pistola, le ha ammazzate, ha rincorso lei nel giardino finché non gli è sfuggita); quello di Alessandra ad Avellino, 35 anni, gli ultimi dei quali trascorsi in compagnia di una grave disabilità, uccisa anche lei a colpi di pistola dal padre, che poi s’è ucciso, e che non poteva sopportarne gli sbalzi d’umore; e poi quello di Antonella ad Altavilla Milicia, torturata e uccisa insieme ai suoi due figli perché «c’era il demonio in casa» e suo marito Giovanni doveva mandarlo via, doveva fare «il suo bene».
Con loro salgono a 16 le donne uccise dall’inizio dell’anno, 12 delle quali in ambito familiare o affettivo. Nello stesso periodo dell’anno scorso erano state 13. E non è finita, perché da Bolzano sempre ieri è arrivata un’altra storia terribile: quella d’una nonna di 62 anni, Waltraud, aggredita, ferita alla gola e lasciata a terra agonizzante dall’ex compagno della figlia, ora ricercato. Era “colpevole” di occuparsi dei suoi due figli, di aiutare la donna che gli “aveva rovinato la vita” e cha aveva avuto addirittura il “coraggio” di rivolgersi a un centro antiviolenza per chiedere aiuto. La nonna ora è ricoverata in gravi condizioni all'ospedale San Maurizio di Bolzano: è in coma farmacologico, sedata, ma non sarebbe in pericolo di vita.
La violenza sulle donne, dunque, non si ferma. E poco importa l’onda di indignazione e di protesta che s’è sollevata da Nord a Sud, in questi ultimi mesi, con le prese di posizione decise delle istituzioni e la nascita di decine di iniziative e movimenti di consapevolezza, tra cui quello che da Torino sta contagiando le università del Paese. Si insiste sull’educazione, si chiede a gran voce alle ragazze e alle donne di denunciare, di non piegarsi alla logica della sottomissione. Loro, le donne, chiedono aiuto, sostegno, d'essere ascoltate. Ma proprio la storia della giovanissima Desyrée a Cisterna di Latina dimostra come sia ancora difficilissimo riconoscere i segnali di quella violenza prima che esplodano: la ragazza, il “suo” Christian, l’avevo preso a dormire nella casa che condivideva con la madre e la sorella più piccola di lei anche l’altra sera, prima della strage. Lui le chiedeva di poter stare ancora insieme a lei, d’essere almeno amici, e lei non riusciva a dirgli di no: poi la lite, e la pistola, che l’uomo deteneva regolarmente essendo maresciallo della Guardia di Finanza.
Agghiacciante quello che è accaduto dopo: gli spari contro le tre donne, Desyrée che si nasconde prima in camera, poi in bagno, che si cala dalla finestra in pigiama, che si nasconde dietro una legnaia e poi corre, e corre mentre Christian urla e la insegue, finché riesce a infilarsi sotto una rete e a raggiungere il benzinaio vicino chiedendo aiuto. Lui a quel punto è tornato in casa, e ha finito Renée con un altro colpo: «Non era ancora morta e non volevo farla soffrire» ha raccontato ieri alla polizia che l’ha interrogato. «La cosa da dire in questo momento è il dolore e la preghiera per le vittime, lo sgomento e l’impotenza di fronte a un simile gesto, per certi versi l’ennesimo, ma poi in se’ unico, come uniche sono le persone di vittime e carnefice – sono state le parole del vescovo di Latina, Mariano Crociata –. Rinuncio in questo momento a fare analisi e commenti di circostanza. Dico che chiunque ne ha la possibilità si dedichi con amore e passione al lavoro, al servizio degli altri, soprattutto al compito o anche solo alla responsabilità educativa con il modo di agire prima che con i discorsi». A questa riflessione s'è aggiunta quella di don Paride Bove, parroco di San Valentino, il quartiere in cui si sono svolti i fatti: «Amare è dare vita, non toglierla. Proprio in questo giorno dedicato all’amore dobbiamo fare i conti con l’odio. Ma oggi è anche Mercoledì delle Ceneri, giorno in cui ci viene ricordata la necessità’ della conversione. Abbiamo bisogno di convertirci al vero amore». Che non spara, non pugnala, non tortura.