venerdì 13 gennaio 2017
La presidente dell'ospedale: ora anche in Giordania e a Betlemme
Enoc: «Così il Bambino Gesù accoglie nelle periferie»
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Lo sguardo è rivolto alle periferie, della Capitale e del mondo. Bangui, con progetti per il centro pediatrico, per dare casa ai profughi, garantire formazione ai medici. Ed ora anche «una collaborazione a Karak in Giordania, per la neuropsichiatria e la riabilitazione soprattutto dei bambini siriani, accanto all’aiuto neonatologico nell’ospedale Sacra Famiglia di Betlemme, insieme ai Cavalieri di Malta». Mariella Enoc, presidente dell’ospedale Bambino Gesù confermata per altri quattro anni alla guida, ha chiaro come continuare a rendere il nosocomio un’opera di carità. «Questo è un ospedale che ha radici nel Vangelo, quindi ogni prossimo va accolto con profonda umanità e amore, con la convinzione che è protagonista di una vita speciale».

Qual è il bilancio di questi due anni di attività?
Sono stati un’immersione di conoscenza per capire il valore dell’opera che avevo tra le mani. All’inizio ho molto faticato, ma con il tempo ha capito che il Bambino Gesù è un centro straordinario sia per la ricerca scientifica, sia per la cura che viene data ai bambini, sia per la capacità di relazione con le famiglie. Così ho cercato di far emergere questi aspetti positivi, perché mostrassero il volto più bello dell’ospedale. Da qui è iniziato un percorso per renderlo una comunità in cui abbiamo messo in evidenza la leadership, l’innovazione, la trasparenza, la comunicazione.

Ora ha quattro anni davanti per proseguire. Che obiettivi
si è posta?
Mi è stato chiesto di continuare questo percorso, confortata dalla fiducia dimostrata da papa Francesco. Riparto pensando che è un passo in avanti da fare per tutto l’ospedale, per rendere il Bambino Gesù un centro sempre più trasparente, sempre più opera di carità, con una grande attenzione alla ricerca e alla formazione dei giovani. Dobbiamo essere, insomma, un ospedale aperto. Innanzitutto perché i frutti della ricerca scientifica devono essere resi disponibili e diffusi il più possibile. Secondo aspetto è l’accoglienza dei bimbi che non potrebbero essere curati nel loro Paese, di quelli delle tante periferie. A partire da Roma, con gli interventi nei campi rom al Casilino. Senza dimenticare le periferie del mondo.

Quali sono i progetti esteri su cui si lavora?
La linea è concentrarsi su alcuni territori, perché le nostre opere portino soluzioni definitive ai problemi, non solo un aiuto sporadico. C’è la grande opportunità che il Papa ci ha dato a Bangui, perché ci facessimo carico del centro pediatrico. Lo stiamo facendo, poi Francesco ci ha affidato lì altri progetti a cui tiene, come le case per i profughi – finora ne abbiamo sistemati circa 5mila – le scuole, e un programma sull’agricoltura. La volontà è aiutare un Paese, non soltanto un ospedale; pensiamo di concludere tutto entro un anno e mezzo. Ora però si sta la- vorando per far crescere anche un altro ospedale nel nord del Paese. Altro fronte già aperto da diversi anni, e che durerà a lungo, è nell’ospedale di Karak, in Giordania. Recentemente si è aggiunta Betlemme, in cui il nostro personale va a fare anche formazione. Dall’estero, penso al Mozambico e la Siria, c’è molta pressione perché i nostri medici vadano ad insegnare, ma dobbiamo misurare le nostre forze, perché il primo obiettivo deve restare l’ospedale romano.

Qui come ha intenzione di continuare?
Essere opera di carità significa creare una comunità viva in cui ci sia un grande livello di ricerca. Ai poveri, infatti, bisogna dare il meglio e chi è malato – in qualsiasi condizione economica sia – è comunque povero. Non dobbiamo annunciare le nostre idee, ma essere testimoni nel Vangelo come fa il Papa. Questo significa eccellenza medica, accanto all’attenzione a non emarginare nessuno. Per questo abbiamo sburocratizzato l’accoglienza. Per esempio, alle casse hanno un fondo da utilizzare per pazienti in difficoltà economiche. Altra povertà per noi sono le malattie rare: qui abbiamo un punto di accesso privilegiato per facilitare la diagnosi precoce.

Cosa ha significato per l’ospedale avere all’interno una Porta Santa durante il Giubileo?
È stato il segno concreto della misericordia, perché si potesse fare un percorso interiore, di fede o meno. Abbiamo cercato di far sì che non fosse solo un simbolo religioso, ma diventasse stimolo per un percorso di miglioramento della propria vita.

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