La discoteca della strage
Sono a terra, ho accanto una ragazza con un ragazzo sopra e altri sotto, sta soffocando, la sento strillare che si sente morire, che sta male, vedo qualcuno che si avvicina e la tira su. Anche io sono schiacciata, ma respiro, ho paura. Un ragazzo poco in là è quasi nelle mie condizioni, si sfila le scarpe, spinge con ogni forza e riesce a liberarsi. Tanti ragazzi sono uno sull’altro e sento quelli sotto che implorano quelli sopra, urlando loro di non muoversi, oppure soffocano.
Riescono a tirarmi fuori. Mentre mi allontano con le mie gambe vedo un ragazzo che ha il segno di morsi sulla schiena. Mi dirà che era stato quello sotto di lui, che non sapeva come fare per liberarsi.
Ci sono tante testimonianze che raccontano la stessa cosa: «Millequattrocento persone? Ma no, eravamo molti di più!». Ce ne sono, poi, di ragazzi salvatisi dal panico e dalla calca incontrollata «perché eravamo già usciti fuori, prima, dentro c’era troppa gente, faceva troppo caldo». E altre ancora di chi è rimasto all’interno e per questo non ha avuto problemi e neppure s’è accorto dell’inferno all’esterno.
Ci sono diversi interrogativi ancora aperti, oltre ai molti già visti fin qui. Sembra che lo staff della “Lanterna azzurra” per quella serata avesse chiamato a lavorare (molti in nero, per settanta euro) ventotto buttafuori, mentre la consuetudine del sabato sera era una quindicina. Poco dopo essersi scatenato il panico, a parte quattro o cinque che si adoperavano per aiutare e salvare i ragazzi (uno di loro si sentirà male e darà a lungo di stomaco), degli altri si perdono subito le tracce, come fossero letteralmente spariti. Perché? Solamente per non dover dire ch’erano lì in nero? E non dover anche dire, parecchi di loro, che neanche conoscevano l’esatta ubicazione delle uscite?
Già, le uscite. Cinque. Una - quella oltre la quale avverrà la strage – quella sera, come sempre, era aperta. Un’altra era aperta solo per metà, cioè delle sue due porte, una era chiusa. Dall’ingresso principale non si poteva uscire, perché c’era una fila di ragazzi che stavano entrando. E siamo a tre. Le altre due sono sbarrate e, non bastasse – raccontano i ragazzi - anche i buttafuori da lì non facevano uscire. Perché?
Ancora. I ragazzi non ricordano di avere visto lo staff dei proprietari della discoteca. Strano, con un ospite di gran richiamo e in una serata come quella, da cinquanta, sessantamila euro d’incasso. Perché?
Mezz’ora dopo la tragedia sono due le ambulanze arrivate - sempre stando ai racconti dei ragazzi - a fronte di un centinaio di feriti. Perché?
Ultima annotazione. Sfera Ebbasta quella notte non arriverà mai alla “Lanterna” (dove sarebbe dovuto essere alle ventidue e cinque, stando a quanto stampato sui biglietti…), magari, chissà, avvisato da qualcuno di quanto successo. E a chi può esser venuto in mente, nel bel mezzo di quell’inferno, di morti e feriti, di chiamarlo dicendogli di non andare?
Solo dopo alcuni giorni di silenzio, Sfera Ebbasta affiderà a un social il suo commento: «Non è facile trovare le parole giuste, non esistono per descrivere il dolore che questa tragedia ha creato» che «mi ha stravolto». Poi concluderà: «Ci si vede ai concerti in giro per l’Italia, sono pronto per affrontare questo 2019 con ancora più grinta e passione di prima».
Alla fine sono allineati sei corpi nel parcheggio, coperti da un lenzuolo bianco. È stato difficoltoso anche riconoscerli. Asia aveva quattordici anni ed era nata a Senigallia. Quattordici anni anche Emma, anche lei di Senigallia, come Daniele, sedici anni. Benedetta, quindicenne di Fano. Mattia, quindici anni, di Frontone (paesino non lontano da Corinaldo). E mamma Eleonora, trentanove anni e quattro figli, di Senigallia. Le autopsie diranno che tutti sono morti per asfissia.
«Ci seguivi sempre: a scuola, ginnastica, teatro. Ci aiutavi in tutto, mamma», dirà al funerale una delle figlie di Eleonora: «Ho iniziato da poco la scuola media e ti avrei voluta vicino ai primi colloqui. Anche gli altri miei fratelli avranno bisogno di te, ma siamo sicuri che ci aiuterai da lassù mamma, ti vogliamo bene». (5. fine)