Ansa
Cerco di pensare in fretta. Hanno tutt’e due le mani alla gola e sul volto, non respirano, capisco che la paura le sta paralizzando ancora di più, avevano detto di sentire bruciare forte la bocca, mi guardo intorno, vedo altri sentirsi male, vedo vicino gente correre e laggiù gente più tranquilla, la musica continua ad andare.
Sì, devo pensare in fretta, lo sguardo incontra i bicchieri, infilo la mano dentro e afferro il ghiaccio che trovo, metto un cubetto in bocca a ognuna delle due ragazze e lo spingo più giù che riesco, prendo due giubbotti da una sedia, li avvolgo sulle loro facce senza premerli, le tiro su a forza, le loro gambe si piegano, quasi non camminano, raccolgo le forze e le trascino fin fuori, siamo all’aperto, le sdraio a terra, ho il fiatone, le braccia indolenzite, tolgo i giubbotti dalle bocche e tolgo quel che è rimasto del ghiaccio, il freddo le scuote, forse va meglio, forse stanno respirando meglio.
Tutto è durato trenta, forse quaranta secondi. Un attimo o una vita. «Ce l’ho fatta», penso.
Danilo (nome di fantasia, come quelli che seguiranno, ndr) ha sedici anni. Un mese fa, la notte fra il 7 e l’8 dicembre, era alla “Lanterna azzurra”, discoteca dove quella sera si balla e poi ci sarebbe dovuto essere un “dj set” di Sfera Ebbasta, trapper che di questi tempi va per la maggiore.
Il cielo era stelle e luna che s’affacciavano nitide. Il locale strapieno di ragazzini, dai dieci, undici ai vent’anni o forse nemmeno, altri stavano arrivando. Mancava poco a Natale, un paio di settimane, loro volevano una serata di musica e gioia da raccontare, per molti è la prima. E molti erano venuti qui non per Sfera, ma per ballare. Il passaparola nemmeno era stato necessario, tutti i ragazzi della zona consideravano questa serata “la festa delle feste”, uno di quegli appuntamenti ai quali quando sei giovanissimo non puoi mancare.
Andrà diversamente. Finirà nel sangue. «Il mio cuore è spezzato, in trentacinque anni di mestiere non ho mai visto nulla del genere», dirà qualche ora dopo il Questore di Ancona, Oreste Capocasa. Cinque vite poco più che bambine e quella di una mamma di quattro figli saranno spazzate via. Un centinaio di ragazzi resteranno feriti, alcuni gravemente. E non solo si sarebbe facilmente potuto evitare. Si sarebbe dovuto.
Prima qualcuno dice «lo spray al peperoncino!», poi sento un gran bruciore in gola, forte, molto forte. Sono vicino all’uscita che qui tengono sempre aperta per farci andare a fumare, vedo tutti muoversi, esco anche io, supero il ponticello in discesa, mi giro e qualche secondo dopo è già pieno. Sono centinaia, pochi attimi, vanno giù per primi quelli che sono in fondo, alla fine del ponticello, i più lontani dall’uscita, dove ci sono quattro cinque scalini, sono ammassati e soprattutto per le ragazze è facilissimo cadere, molte hanno i tacchi.
La gola non mi brucia più, è passato subito. Urliamo con tutto il fiato verso chi sta uscendo di stare indietro, che se venissero avanti schiaccerebbero chi è caduto, non si fermano, sono nel panico, sono tanti, tantissimi, continuano a venire avanti, ad ammassarsi. Talmente tanti che ora sono fermi, non possono andare avanti e neanche indietro, perché altri ancora stanno uscendo. Va giù la balaustra.
Adesso si mette male, malissimo, lo capisco subito, lo capiamo, c’è chi è seppellito sotto sei, sette persone, chi è incastrato, chi strilla «prendi me, prendi me!». Un ragazzo mi strattona e dice «ho questa ragazza sotto, tirala via!», lui riesce a sollevarsi appena e io riesco a spingerla fuori, è giovanissima, ha la faccia coperta di sangue, credo però sia viva, la porto in braccio fino al parcheggio esterno e l’affido a un infermiere, torno al ponticello ad aiutare. Non penso, mi muovo veloce, sono a decine e decine nel sangue, schiacciati, feriti, hanno bisogno d’essere aiutati, è stato tutto troppo veloce, non mi rendo conto di quel che accade, di quel che faccio, voglio solo tirar fuori più gente possibile finché avrò forze.
Da quel mucchio umano riesco a far uscire una ragazza, mi sembra che non respiri, le faccio il massaggio cardiaco mentre altri due amici si danno da fare e sfilano altri da quell’inferno. Poco dopo vediamo una ragazzina che non si muove, la conosco, è Benedetta, non sappiamo se toccarla, potrebbe avere qualcosa di rotto, alla fine la prendo, la porto al parcheggio, mi siedo a terra, la tengo fra le braccia, arriva un medico, se ne occupa lui, mi manda via, torno in quell’incubo, continuo a non pensare, non riesco, sento troppe urla, devo solo aiutare.
Un paio d’ore e torno nel parcheggio, seduto, sfinito. Si avvicina un infermiere. Mi sussurra: «Benedetta non ce l’ha fatta». Aveva quindici anni. Io ne ho due più di lei. Ora capisco, ora riesco a pensare. È stato un macello.
La “Lanterna azzurra” non è grande, ha tre sale, la più capiente da 471 posti, che arrivano a 870 insieme alle altre due (ma la più piccola è un seminterrato che in genere si usa come deposito). È in aperta campagna, poco fuori Corinaldo, paesino a meno di trenta chilometri da Senigallia. Nell’entroterra non ci sono altri posti dove i ragazzi possano ballare o stare insieme, se non raggiungendo Ancona o Rimini.
Esternamente la discoteca è quasi tetra, un vecchio edificio anonimo, che ricorda una casa colonica e che una volta era una balera. L’interno è altra storia, con l’impianto luci e quello audio sofisticati e potenti, senza nulla da invidiare alle più famose discoteche, non lontane, della riviera adriatica. Nessun cartello stradale indica la strada per la “Lanterna”.
Sono spesso a disposizione bus navetta da Senigallia e Fano, per esempio. L’età media dei ragazzi che la frequentano è bassa, sedici, diciassette anni al massimo. Si lamentano un po’ dei prezzi, alti, però in linea con quelli dei locali simili. Una bottiglietta d’acqua non si compra con meno di tre euro e una birra con meno di cinque, se vai sui drink, si spendono dai dieci in su. L’ambiente non sembra male, magari qualche serata non gira proprio come dovrebbe e qualcuno a volte si lamenta dello staff e di modi un po’ troppo spicci. Ma fin qui è ciò che riportano i resoconti, per così dire, "ufficiali". (continua)