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La lista degli indagati, già da sola, è di quelle capaci di terremotare il mondo della politica e delle istituzioni: ci sono l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana (con l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera) e ancora il presidente dell’Istituto superiore della sanità Silvio Brusaferro, il presidente del Consiglio superiore della sanità Franco Locatelli, l’allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico nella prima fase dell’emergenza. Ma il colpo di grazia sono i reati ipotizzati: ovvero, a vario titolo, epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio. La resa dei conti sul Covid, a tre anni dall’inizio della pandemia, è andata in scena negli uffici della Procura di Bergamo, nel cuore della città simbolo del virus coi suoi morti (3mila soltanto in quella primavera, per stare ai numeri accertati) e la fila di bare sui camion dell’esercito che nessuno può dimenticare.
È da lì che sono partite le notifiche degli avvisi, anche quelle indirizzate per competenza al Tribunale dei ministri. «Non un atto di accusa» si affrettano a precisare dalla Procura con una nota, ricordando l’attività «oltremodo complessa» condotta «sotto molteplici aspetti e che ha comportato altresì valutazioni delicate in tema di configurabilità dei reati ipotizzati, di competenza territoriale, di sussistenza del nesso di causalità ai fini dell’attribuzione delle singole responsabilità».
Anche se ad atti di difesa assomigliano le prime dichiarazioni rilasciate a sera da alcuni indagati: «Sono tranquillo di fronte ai cittadini italiani per aver operato con il massimo impegno e con pieno senso di responsabilità durante uno dei momenti più duri vissuti dalla nostra Repubblica» scrive Conte in una nota; «Sono molto sereno e sicuro di aver sempre agito con disciplina ed onore nell’esclusivo interesse del Paese» gli fa eco Speranza. Mentre per i familiari delle vittime è uno giorno storico, in cui «si riscrive la storia della strage bergamasca e lombarda, la storia delle nostre famiglie, delle responsabilità che hanno portato alle nostre perdite. La storia di un’Italia che ha dimenticato quanto accaduto nella primavera 2020, non a causa del Covid-19, ma per delle precise decisioni o mancate decisioni».
Tre, in sostanza, i filoni dell’indagine che si è conclusa: la repentina chiusura e riapertura dell’ospedale di Alzano, la mancata “zona rossa” in Val Seriana e l'assenza di un piano pandemico aggiornato per contrastare il rischio pandemia lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Punti sulla cui ricostruzione il pool di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e gli investigatori della Guardia di finanza si sono avvalsi anche della maxi-consulenza firmata da Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova e ora senatore del Pd.
Per il filone locale, cioè quello legato ai fatti avvenuti in Lombardia, tocca tornare indietro, al 23 febbraio del 2020: è in quella data che dall’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano l’84enne Ernesto Ravelli viene trasferito al Papa Giovanni XXIII, dove poche ore dopo morirà. Assieme a lui, in corsia, c’è anche un 83enne di Nembro. Che in ospedale è arrivato dieci giorni prima, ma il cui tampone risulta positivo solo quel giorno. Ciò che avviene nella struttura a questo punto è stato a lungo avvolto nel mistero ed è tra i capitoli affrontati dagli inquirenti: il Pronto soccorso chiude alcune ore, poi riapre. Alcuni sanitari testimoniano in esclusiva ad Avvenire che i locali, nel frattempo, non vengono sanificati, ma l’allora assessore al Welfare Gallera smentisce. Certo è che non vengono creati percorsi di triage differenziati, che medici e infermieri a contatto coi pazienti positivi non vengono tamponati. E – questa la tesi dei numerosi esposti presentati proprio alla Procura di Bergamo – il virus è così libero di esplodere, travolgendo da lì a pochi giorni l’intera Val Seriana. Dove tra fine febbraio e metà aprile l’eccesso di mortalità registrato è di 6.200 persone rispetto alla media dello stesso periodo degli anni precedenti. Un’ecatombe.
Quanto al mancato aggiornamento del piano pandemico, ecco entrare in gioco le responsabilità del governo e delle autorità sanitarie nazionali (altri indagati di spicco, tra l’altro, potrebbero figurare tra i 17 annunciati ieri sera dalla Procura di Bergamo): quel piano, infatti, avrebbe dovuto entrare in azione dopo l’alert Oms del 5 gennaio 2020 sul nuovo coronavirus, con l’acquisto massiccio di dispositivi di protezione individuale per esempio, e un monitoraggio attento delle malattie polmonari confrontate con gli anni precedenti. Ciò che non accadde mai e che, anzi, si tentò di mascherare facendo sparire e poi provando addirittura a cambiare un documento di accusa al nostro Paese firmato dal funzionario dell’Oms Francesco Zambon. Lui, che dopo quei fatti si licenziò, è stato tra i testimoni chiave sentiti dalla Procura.