Crisi del welfare, con tagli che hanno decimato le risorse dei servizi per i minori, e mancanza di un quadro nazionale di riferimento con forti differenze tra regione e regione, le difficoltà vere a cui porre rimedio. Nella foto una casa famiglia della Papa Giovanni XXIII
Dopo gli annunci di Salvini, partite le procedure per avviare una commissione parlamentare di inchiesta sulle case famiglia. Ma le difficoltà autentiche riguardano l’abbandono in cui per anni sono state lasciate le strutture di accoglienza
Senza perdere tempo la Lega passa dalle parole ai fatti. La commissione d’inchiesta sulle case famiglia si farà davvero. A tre giorni dall’annuncio del vicepremier Salvini a Verona, ieri la Lega ha depositato sia al Senato che alla Camera la proposta di legge per istituire una Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività di affidamento di minori alle case famiglia.
Obiettivo? «Fare chiarezza sulle opacità di un sistema che, ad oggi – hanno spiegato i capigruppo Lega di Senato e Camera, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari – non consente di avere un quadro chiaro ornato sul numero di minori coinvolti, in quali strutture siano ospitati e se quest’ultime rispettino gli standard minimi su servizi, assistenza, costi e trasparenza».
Tra i propositi anche quello di verificare che il diritto dei minori a crescere nella propria famiglia di origine sia sempre rispettato ed evitare casi di abuso e di non corretto utilizzo di risorse pubbliche. In realtà l’assistenza minorile nel nostro Paese, più che di inchieste (per altro già svolte e in abbondanza negli ultimi anni) avrebbe bisogni di aiuti, visto che soffre sotto il peso di due gravi inadempienze: mancanza di un coordinamento nazionale e crisi del welfare. Entrambe, per diversi motivi, gravissime.
Vediamo di fare chiarezza.
Diciamo subito che non c’è un business delle case famiglia, c’è piuttosto un sistema della tutela sociale molto depotenziato nel quale il numero di bimbi e ragazzi inseriti nelle case famiglia si sta riducendo (Lazio, Campania e Puglia meno 30% in 5 anni), non perché le famiglie d’origine stiano meglio – se fosse così tutti saremmo contenti – ma perché quei bambini rimangono abbandonati a se stessi, tra famiglie che non sono in grado di provvedere ai loro bisogni e servizi pubblici che, a causa delle difficoltà economiche, dismettono la loro tutela.
Si potrebbe evitare di mandare un bambino in comunità o in casa famiglia? Certo. La maggioranza di quelli che oggi vengono allontanati è figlia di famiglie che, se fossero state supportate e seguite per tempo in modo adeguato, non sarebbero arrivate a livelli di disagio tali da indurre i tribunali, su parere dei servizi sociali, a intervenire. Il principio guida è che il luogo dove i bambini stanno meglio è senz'altro famiglia, a patto che quella particolare famiglia non rappresenti per loro un rischio. Sono sempre valutazioni difficili e delicate, sbagliare non è infrequente.
È possibile che una casa famiglia non faccia bene il suo lavoro? È possibile che un giudice minorile commetta un errore nel disporre un allontanamento? Certo. E questi errori vanno sanzionati, anche penalmente quando è il caso. Ma non si può generalizzare. La maggior parte delle strutture svolge il proprio compito in modo ammirevole e trasparente. Ora, quando il giudice decide di collocare un bambino in comunità, con quale criterio sceglie? Al di là di emergenze legate alla situazione del territorio, dovrebbe essere guidato dalle diverse tipologie di bisogno. Non tutti i bambini possono essere mandati in affido familiare e non per tutti è opportuno andare in casa-famiglia.
Dal novembre 2017 le linee guida sull'accoglienza dei minori prevedono 7 macrotipologie. La prima riguarda le comunità che offrono la presenza di uno o due adulti. Cioè le comunità in cui chi accoglie vive con chi viene accolto. Sono appunto le 'case famiglia' o 'comunità familiari'. Poi ci sono le 'comunità educative' caratterizzate alla turnazione degli educatori. Qui nessuno vive stabilmente, ma ci sono operatori che si avvicendano. Le altre tipologie sono le 'case di pronta e transitoria accoglienza', le 'case per gestanti e madri con figli', le 'comunità alloggio' per i ragazzi più grandi, anche maggiorenni, in semi autonomia. E infine ci sono i 'gruppi appartamento' in cui vivono maggiorenni con operatori non sempre presenti. C’è poi la tipologia proposta dalla 'Giovanni XXIII' che tecnicamente comprende 'case famiglia multi-utenza complementare' nella convinzione che i bambini abbiano bisogno di essere accolti in case dove ci sono anche anziani, ragazze madri, disabili, ecc. In questo modo le diverse tipologie del bisogno si completano al meglio.