lunedì 13 febbraio 2012
Oggi la sentenza sulla «strage bianca». A due anni dall’apertura del dibattimento arriva il verdetto per i dirigenti della multinazionale accusata di disastro ambientale doloso – per aver disperso la sostanza tossica – e omissione di misure anti-infortunistiche, reati che avrebbero provocato la morte di 2.000 persone.
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«Com’era l’amianto che ha ucciso mio marito? Bianco con riflessi azzurri, proprio come questa neve». Nella città dei crumiri, il Blizzard non fa paura quanto i ricordi e la neve di questi giorni ricorda tanto il polverino. Si chiamava così lo scarto di lavorazione della Eternit e ancora negli anni Ottanta «te lo tiravano dietro, tanto ce n’era; i bambini si buttavano sui sacchi. Giocavano e respiravano le fibre della morte». Assunta Prato non ha giocato con quei sacchi, perché lei viene da fuori e la sorte l’ha graziata. Suo marito no. Paolo Ferraris era un assessore regionale della Dc, uno degli uomini più influenti della città, l’enfant prodige di Donat Cattin. Le fibre di amianto volano, mille volte più sottili d’un capello, e si comportano come la livella: politici e operai, cattolici e comunisti, giovani e vecchi, stroncati in pochi mesi dalla diagnosi, tra dolori lancinanti, perché, che sia cancro o asbestosi, alla fine muori comunque soffocato. «Paolo aveva una gran fede e anche in quelle ore terribili nutriva la speranza di restarci vicino "dopo" la fine. Ma non c’è nessuna somma che possa compensare la sua morte. Io e i miei figli vogliamo un verdetto giusto». Assunta Prato è una delle mogli, delle madri, delle figlie che si sono costituite parte civile contro la Eternit. I morti accertati fino al 2008, cioè alla chiusura delle indagini, per l’inquinamento da amianto provocato dai quattro stabilimenti coinvolti nel processo sono tremila, oltre duemila dei quali sono deceduti, 1.800 sono casalesi e di questi oltre 1.100 sono ex operai Eternit mentre oltre 600 sono cittadini che hanno respirato l’amianto. Oltre seimila sono le parti civili che aspettano la sentenza di domani. Il Palagiustizia torinese aprirà due maxi aule da 250 posti e l’aula magna da 700, la vicina Provincia ne metterà a disposizione una da 316. Si attendono 160 delegazioni da tutta Italia e da Francia, Brasile, Usa, Svizzera, Gran Bretagna, Olanda e Belgio, dove l’amianto viene ancora prodotto o dove sono in corso dei processi analoghi. Attesi 24 pullman da Casale, città simbolo per i suoi morti e perché qui è nata l’Associazione familiari vittime amianto, che ha dichiarato guerra alla multinazionale, rendendo possibile quello che a parere di tutti è un processo storico, non solo per l’incredibile diffusione dell’amianto, ma perché una condanna metterebbe in mora un certo tipo di management, secondo cui le multinazionali «non sanno» e quindi non sono responsabili dei reati perpetrati nelle filiali periferiche. È la linea dell’elvetico Stephan Schmidheiny, che ha cercato di strappare al Comune di Casale un accordo in cui, in cambio di un risarcimento milionario, chiedeva di essere riconosciuto come «un filantropo» che si batte per l’ambiente. Proposta respinta.«Quando abbiamo cominciato a lavorarci, il caso Eternit sembrava una pazzia», ha dichiarato ieri procuratore Raffaele Guariniello, capo dei pm, che vogliono «portare il problema alla luce del sole. Non solo da noi a Torino, ma dappertutto». Tuttavia, in Francia i pubblici ministeri possono ancora archiviare autonomamente i fascicoli «per ragioni di opportunità», mentre in Svizzera e Belgio ci sono problemi di prescrizione.Alla vigilia della sentenza nessuno si sbilancia neppure in questa città tappezzata di tricolori ghiacciati che chiedono «Eternit: giustizia!». Qualcuno teme persino che il grande freddo possa far rinviare la sentenza. È più probabile che, anche in caso di condanna, le provvisionali non soddisfino tutti: oltre alle famiglie delle vittime, ci sono gli enti locali che vogliono recuperare i milioni spesi per deamiantizzare i loro territori, l’Inps e l’Inail che debbono rifarsi delle pensioni erogate ai malati e altri soggetti danneggiati dal disastro ambientale. Tra le vittime, poi, c’è chi si è ammalato per aver lavorato all’Eternit per una vita e chi per un breve periodo, ma ci sono anche molti cittadini che hanno contratto il mesotelioma senza mai varcare il portone della fabbrica. Infine ci sono «coloro che non si sono mai ammalati, ma che hanno vissuto nel terrore, facendo esami su esami a ogni minimo dolore. Chiediamo il riconoscimento del loro danno psicologico», come spiega Bruno Pesce. Il sindacalista cigiellino è l’anima dell’associazione. È arrivato a Casale nel ’79 per fondare la Camera del lavoro e ha intercettato subito quelle morti strane nella grande fabbrica che nessuno osava toccare: per numero di occupati e reddito medio, la Eternit era la Fiat di qui. «Negli anni Settanta anche il sindacato preferiva monetizzare – conferma l’attuale segretario della Cgil Nicola Pondrano – quello che sembrava un rischio accettabile, nessuno aveva coscienza che l’amianto uccide e la fabbrica era la pensione dei contadini». Non è un caso che all’Eternit si lavorasse da e fino alle 12: i turni erano concordati per consentire agli operai di destinare mezza giornata alla campagna, giacché la terra costituiva ancora l’interesse principale dei casalesi. Nella fabbrica della morte i salari erano maggiorati del 30%: la chiamavano «indennità polveri», in verità nessuno sapeva a cosa stava rinunciando, finché i lavoratori non iniziarono ad ammalarsi e a morire come mosche. Ormai erano gli anni Ottanta e la società, annusando la crisi e prevedendo l’esito della vicenda, fece istanza di fallimento. Nell’86, Pondrano era già passato dai reparti ai tavoli negoziali: «Quando chiuse lo stabilimento – ricorda –, nessuno ci criticò: anche tra gli operai c’era stata la presa di coscienza del pericolo. Ma quant’è costata cara!».
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