Lo hanno fatto ogni giorno, per dieci anni, con passione e competenza. Ma giovedì 15 gennaio, i detenuti impiegati dalle cooperative sociali che gestiscono le mense di dieci carceri italiane scenderanno in cucina per l’utima volta: una volta terminato il servizio, dovranno riconsegnare le chiavi all’amministrazione penitenziaria. A sorpresa, con 16 giorni d’anticipo rispetto a quanto stabilito durante l’incontro del 30 dicembre scorso tra i rappresentati delle cooperative, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il capo di gabinetto Giovanni Melillo e Santi Consolo, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Cassa delle Ammende - che per dieci anni ha finanziato il progetto - aveva infatti deciso di non sostenerlo ulteriormente, considerando conclusa la fase di sperimentazione. Ma il 30 dicembre era stata concessa una breve proroga alle cooperative fino al 31 gennaio 2015, con l’obiettivo di verificare le esperienze in atto e individuare soluzioni ad hoc. Una proroga che purtroppo non è arrivata nonostante una mozione parlamentare presentata in settimana dai deputati pd Iori e Verini. «Siamo senza parole!» è il commento dei rappresentanti delle cooperative, riunite per l’occasione nel 'Gruppo emergenza carcere' che, in un comunicato, denunciano: «Inizia a delinearsi un vero e proprio smantellamento » del lavoro in carcere così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Per fare spazio a un sistema «velato di nuovo lavoro forzato, di quello che Papa Francesco chiama le nuove forme di schiavitù». «Mi sento come se mi avessero dato una coltellata al cuore». Silvia Polleri è la presidente della cooperativa «ABC-La sapienza in tavola' che gestisce la mensa del carcere di Bollate (Milano) cui ha affiancato un servizio di catering. Attualmente im- piega nove detenuti per la gestione della cucina e dei servizi esterni, più altri due per il bar. «Dovrò licenziare. Potrò tenere solo due persone a tempo pieno per il catering, se dovessi aver bisogno di altro personale lo prenderò a chiamata, con i voucher - spiega con amarezza -. Vediamo quanto riusciremo ad andare avanti». Senza una solida 'base' come la gestione della mensa, i servizi di catering restano troppo sporadici per reggere tutta l’attività della cooperativa. Ma c’è un altro elemento che preoccupa i rappresentanti di aziende e cooperative sociali che, in questi anni, hanno investito sul lavoro in carcere. E che comporterà ulteriori licenziamenti tra i detenuti-lavoratori. Nel corso del 2014, il Dap aveva infatti chiesto alle cooperative di indicare, entro il 31 ottobre, il fabbisogno per il 2015: ovvero il numero di detenuti già in forza e quelli di prossima assunzione per poter usufruire dei benefici contributivi e fiscali previsti dalla 'Legge Smuraglia'. «Il dipartimento però si è accorto che la richiesta era superiore del 34% rispetto al fondo a disposizione. È paradossale: prima ci viene chiesto di indicare quanto serve per mandare avanti il lavoro, poi scopriamo che il budget è stato ridotto», commenta ancora Silvia Polleri. Complessivamente sono state presentate richieste per un totale di 9 milioni di euro, ma il budget concesso è di poco inferiore ai 6 milioni. Un taglio lineare secco, che obbligherà aziende e cooperative a licenziare un terzo del personale assunto il carcere. Il danno è evidente non solo nei numeri, ma anche nelle modalità di lavoro: come può un’azienda programmare le proprie attività se - nel volgere di poche settimane - le risorse a disposizione vengono tagliate del 34%? «Il 30 dicembre il ministro Orlando ci aveva chiesto di continuare a portare lavoro in carcere. Poi scopro che pochi giorni prima è stato ridotto il budget della Smuraglia. Mi sento presa in giro», commenta Polleri. In questi dieci anni dalle cucine di Bollate sono passati una cinquantina di detenuti: solo cinque sono ritornati dietro le sbarre. «Perchè noi portiamo lavoro vero in carcere, lavoro che qualifica e che offre la possibilità di reinserisi nella società. Pensare che i nostri sforzi non sono stati compresi mi provoca una grande amarezza».