Che di strada spianata verso la liberalizzazione della cannabis non si tratti, il Governo ci tiene a puntualizzarlo in modo deciso ormai da mesi. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin sulla questione ha sempre parlato chiaro: «Un conto sono produzioni che vengono fatte in modo controllato, un conto è legalizzare le droghe leggere, operazione a cui sono assolutamente contraria». Il giorno tanto atteso, però, è arrivato e oggi proprio al ministero della Salute la Lorenzin siglerà con il ministro della Difesa Roberta Pinotti il protocollo per dare il via alla produzione di farmaci a base di cannabis terapeutica presso lo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze.Una decisione acclamata da chi – come l’associazione radicale Luca Coscioni – da sempre ritiene l’impiego di cannabinoidi una conquista di civiltà a favore di migliaia di malati e che tuttavia desta più di una perplessità tra esperti sanitari e addetti ai lavori, specie all’indomani dell’allarme lanciato dal Dipartimento delle politiche antidroga circa il boom degli spinelli tra gli adolescenti (uno su 4 ne ha fatto uso almeno una volta nel 2013).Non si tratta di pregiudizi o visioni ideologiche di parte: «Il primo punto su cui si dovrebbe riflettere è che bisogno abbiamo di produrre cannabis a uso terapeutico quando in Europa esistono già altri farmaci a base di tetraidrocannabinolo», si domanda Silvio Garattini, direttore dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano. Per adottarli basterebbe percorrere la via del “mutuo riconoscimento”, secondo cui l’Aifa – sulla base della documentazione già presentata in un altro Paese – può fare un farmaco proprio. «Ora però decidiamo di produrli questi farmaci – continua Garattini –, il che fa sorgere la domanda: è un lavoro così importante?». Ma questioni tecniche a parte c’è un altro nodo, ben più spinoso: «Quello che andrebbe tenuto presente è che da un lato molti studi parlano chiaramente degli effetti collaterali negativi di queste sostanze sul sistema nervoso centrale, per esempio, e dall’altro che non esistono ancora studi comparativi in grado di dirci che benefici offrano rispetto a quelli già esistenti (e non a base di cannabis) per le patologie per cui vengono impiegati». Insomma, per Garattini il rischio è quello di fare un pasticcio: «E non perché stiamo parlando di cannabis. Tutti riconoscono l’importanza della morfina nonostante di per sé non si tratti di una sostanza “buona”. Qui il punto è che ci sono regole precise da seguire, quando si tratta di farmaci e della loro efficacia, e mi sembra che non vengano seguite».Nulla in contrario alla cannabis a uso terapeutico per Riccardo Gatti, psichiatra, psicoterapeuta e direttore del Dipartimento dipendenze della Asl di Milano, «però va messa in chiaro subito una cosa: che serva a qualcosa è un conto, che diventi la panacea di tutti i mali è un altro». E l’errore – più o meno voluto – nel campo della comunicazione mediatica può causare danni enormi: «Se diciamo alle persone che in fondo fa pure bene, si diranno: perché non usarla allora?». L’ambiguità ha portato negli Stati Uniti, per esempio, a un vero e proprio business nel campo dei farmaci a base di cannabis, «col risultato che si santifica ciò che non è santificabile, dimenticandosi che dietro c’è un’enorme manovra commerciale». E che a livello culturale il messaggio per le giovani generazioni, e non solo, può essere dirompente: si può fare.Il tutto mentre, a proposito della situazione delle dipendenze in Italia, i dati del Dipartimento Antidroga fotografano «un clima permessivista» e di «normalizzazione culturale» che allarma le comunità di recupero, a cominciare da San Patrignano, e che fa parlare l’Associazione scientifica Gruppo Tossicologi Forensi Italiani di una «caduta politica della consapevolezza dei pericoli comportamentali correlati alla cannabis».