lunedì 8 ottobre 2012
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La linea dell’orizzonte è sfrangiata da cielo, pioggia e mare mischiati insieme. Il brigantino è in banchina, a La Spezia, perché fuori l’onda cresce fino a tre metri. Le vele ripiegate. Ma non importa troppo: anche l’attesa è passaggio importante per crescere. Per ricostruirsi. Per imparare a sanare gli errori commessi. E se questi uomini hanno spesso maschere e modi da duri senza cuore, pian piano su questa barca e in questi giorni i travestimenti svaniscono, a volte cedendo il posto a una lacrima che magari si sarebbe voluta nascondere. "Nave Italia" è il brigantino a vela più grande al mondo, sessantuno metri di legni, ottone e buona tecnologia: una suggestione d’altri tempi a pelo d’acqua. Oltre all’equipaggio di venti militari, la "Comunità Papa Giovanni XXIII" vi ha portato a bordo per cinque giorni l’esperienza di una comunità educante per i carcerati. Cioè una ventina di detenuti da diversi istituti di pena, con gli operatori e il cappellano del carcere di Frosinone. «Buon vento» ci si augura, fra uomini di mare, prima d’imbarcarsi.
L’attesa. E gli altri«Le mie sensazioni sono un po’ strane – dice Marco –. Io sono una persona un pochino chiusa e faccio fatica a espormi troppo con gli altri, però in questa occasione mi sto un po’ aprendo». Poi socchiude gli occhi, in coperta, guardando il porto: «Forse sto togliendo un po’ di rabbia che avevo in me per le mie caz… fatte».È dura essere costretti all’ormeggio quattro giorni, ma in qualche modo è una specie di burrasca anche questa. «All’inizio di questa esperienza ero timoroso – spiega Franco – perché non conoscevo le persone e per l’incognita della vita su una nave». Il desiderio di salpare è forte, sempre più, tuttavia «è come se quest’attesa mi abbia permesso di entrare di più in relazione con le persone. Stare su una nave e i suoi spazi limitati mi ha permesso di mettermi in gioco e non imboscarmi».È impossibile su un’imbarcazione. Tutti sono coinvolti in tutte le attività, dalle pulizie agli impegni marinari (come issare e ammainare le vele, salire in testa d’albero, imparare a fare e sciogliere i nodi). E poi ci sono momenti di confronto, di animazione spirituale e il progetto artistico legato al teatro. «Trovo pesante il fatto di avere l’intera giornata programmata senza avere il tempo di stare solo a pensare alle mie cose», si lamentava il primo giorno Carlo. Ed Enrico aggiungeva: «Con il passare delle ore ho deciso che non potevo lasciarmi scoraggiare e mi sono detto che dovevo approfittare di questa occasione per stare insieme alle persone che condividono questa esperienza con me».
La porta che si apreIl mare entra dentro. Scava, tormenta, parla. Rasserena. Le cuccette di una barca sono piccole, anguste e, insieme, accoglienti e avvolgenti. «Non riesco a capire perché il passato non ha il coperchio – sussurra Davide, una sera, seduti sotto il grande boma –. Forse perché quando si chiude una porta e se ne apre una nuova, di solito guardiamo tanto quella chiusa da non accorgerci di quella che si è appena aperta». Fabio Gallo è della "Papa Giovanni" ed è pragmatico: «Chi è detenuto – racconta – prima o poi esce dal carcere e nel 75 per cento dei casi vi rientra negli anni successivi. Chi invece ha scontato la carcerazione usufruendo di pene alternative, costruendo legami affettivi, relazioni positive e confrontandosi con il mondo del lavoro, solo nel 19 per cento dei casi torna a delinquere». E allora, secondo Gallo, «la società può e deve coinvolgersi nel recupero dell’uomo che sbaglia, che non vuol dire "liberi tutti"». Fermo restando che «chi ha sbagliato deve saldare il suo conto con la società. Però si devono creare strutture dove la persona possa riappropriarsi di se stessa e destinarsi secondo verità, intelligenza, amore».Alle diciannove, ogni sera, c’è la Messa. Celebra don Guido, quarantasette anni e modi affabili. i ragazzi si occupano di preparare l’altare prima e delle letture poi. È il momento nel quale «sull’altare – usando le sue parole – mettiamo quanto abbiamo fatto nella nostra giornata, ma anche i nostri sbagli e le nostre sofferenze». I vetri del saloncino, quasi sotto la plancia, si arrossano di sole che va a tramontare.
Una Croce per l’altareScaramanzia e superstizione sono parte degli uomini di mare. Così, alcuni ragazzi dell’equipaggio quando hanno saputo delle Messe a bordo, per poco non... svenivano: «No! Soltanto se è morto qualcuno si celebra sulla nave!», avevano tuonato. Poi invece hanno finito per parteciparvi loro stessi. E fatto in realtà molto di più: non c’era un Crocifisso da tavolo e la prima sera sull’altare erano stati sistemati due listelli di legno incrociati alla bell’e meglio. Il giorno dopo è saltata fuori una Croce costruita in mattinata e benedetta da don Guido.Ancora Fabio Gallo: «Recuperare i ragazzi che passano nelle carceri italiane penso sia una sfida possibile». Ci vuole uno «sforzo enorme e un enorme lavoro da parte di tutti noi», ma è sfida «da raccogliere» e «su questa nave mi pare abbiamo dimostrato quanto sia possibile, accorgendoci come in pochi giorni si possano tirar fuori cose belle da persone che per la società sono scarti». L’immagine più bella? «Vedere ragazzi che hanno infanzie e vite ferite capaci di rimettersi in gioco come dei bambini». Pioggia leggerissima. Maurizio allarga il cuore: «Non avevo mai fatto un’esperienza come questa. Provo una sensazione di libertà interiore, nella quale i pensieri, i brutti ricordi sembrano svaniti nel nulla, ma che in un attimo come ti trovi da solo ecco che riaffiorano». Ali spiegate di gabbiani che cavalcano il vento, scivolano per un istante sull’acqua e si rialzano in volo. Va avanti, Maurizio: «Ho vissuto molto tempo in solitudine, chiuso in me stesso. Faccio molta fatica ad aprirmi con chi mi sta vicino». Ancora avanti: «Forse ho paura di arrivare a capire chi sono veramente».
Un unico «gruppo»Questi cattivi forse non sono tali, forse lo erano solamente diventati. «Ancora oggi non sono libero dai miei giudizi e pregiudizi – spiega Renzo a bassa voce –. È che non sono capace di una vera, profonda accoglienza» e questo «non mi permette di lasciarmi andare con tutti». C’è poi il tempo dei sorrisi su Nave Italia. Finanche quello di mettere la musica e, sul ponte, fare tutti insieme lo step (ginnastica aerobica a tempo di musica con uno scalino) guidati dal... nostromo. Mentre il comandante, Paolo Saccenti, fuma il suo sigaro e osserva divertito. E a tavola, per pranzo e cena, niente posti fissi o tavoli "riservati": membri dell’equipaggio e ragazzi si mischiano gli uni con gli altri, i dialetti di mezza Italia si fondono insieme, le battute si sprecano, chiacchiere e sfottò sul calcio la fanno da padroni.Così è strano. Così sembra che l’equipaggio sia unico e che – come accade soltanto in barca – ci sia soltanto una squadra: un gruppo di uomini, ognuno coi suoi compiti, senza differenze, né passati, che si muovono all’unisono per navigare verso un porto. Nel giorno dei saluti don Guido è il primo a sbarcare, ha il treno per tornare a Frosinone molto presto, prima degli altri, e un sorriso contento sul volto. Finite le (ultime) pulizie, i borsoni di ciascuno vengono sistemati sul ponte. Brutto tempo e pioggia anche oggi. Ci si scambiano numeri di telefono, indirizzi e-mail, abbracci. «A volte basta poco», dice il cappellano. Sempre, forse.
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