Alla vigilia delle votazioni del Bilancio dello Stato per 2022, ci si augura che anche per le entrate ricercate dal comparto dei giochi d’azzardo in concessione, almeno due ministeri interessati – Economia e Salute – ponderino con attenzione i conti. A cominciare dal settore più in crescita e con numeri paradossali: l’online.
La prima informazione è che finora è occorso un volume pari a 41 miliardi di euro di puntate con le piattaforme digitali, perché dal canto suo lo Stato ne ricavi meno di 600 milioni. Tale è infatti l’ampiezza della quota trattenuta dall’Erario nel 2020. Per contro, una cifra tripla (più di 1 miliardo e 765 milioni di euro) è andata ai concessionari di casinò virtuali, di poker, di scommesse e di altre decine di modalità simili sul web. Insomma, il banco online si spartisce le giocate nella seguente proporzione (nell’anno 2020): un quarto di quello che gli italiani hanno perso, lo incassa lo Stato; le altre tre parti fanno il profitto delle major private. Se invece il rapporto lo si calcola sul volume lordo delle scommesse, va al banco Agenzia Dogane e Monopoli un punto e mezzo percentuale, e invece 4,3 finiscono alle società, italiane ed estere, che raccolgono i versamenti dei giocatori. Una vistosa sproporzione e al ministero dell’Economia dovrebbero chiarire ai contribuenti il perché di tale favore, proprio mentre decolla il Pnrr con il timone di Mario Draghi.
Non è solo una questione di soldi. Tradotto, l’affare in giornate di vita (ciascuna di 8 ore, quante se ne dedicano al lavoro quotidiano) significa un tempo sociale di 84 milioni di giorni persi, e solo per i “giochi” che si svolgono da remoto, ovvero per mezzo di uno smartphone o davanti allo schermo di un computer. L’azzardo, è ovvio, ma non scontato rammentarlo, brucia denaro e giornate delle persone.
A chi si occupa della salute è questa informazione che interessa, ovviamente, e non quella “monetaria”. Il tempo è infatti la misura della patologia che si può tentare di inquadrare su scala generale per l’epidemiologia. L’Istituto superiore di sanità ci ha informato che 18 milioni e mezzo sono le persone che almeno una volta in un anno hanno giocato a una delle tante modalità di puntate in denaro disponibili sul mercato, ma all’interno di questo universo di giocatori ve ne sono però 5,1 milioni che sono abitudinari e, ancora all’interno degli abitudinari, c’è il sottoinsieme dei problematici, pari a un milione e mezzo di persone.
Elaborando allora quei dati, ogni giocatore “abitudinario” impiega al terminale (mobile o fisso) 400 ore in media ogni anno. Da ogni scommettitore “patologico” proviene una somma di vita che è pari al triplo: 1.200 ore. Per riassumerla in breve: l’80 per cento di quanto si punta e si perde al gioco d’azzardo in Italia ogni anno deriva da una minoranza di clienti dei siti online, per l’appunto dal 20 su cento di consumatori di azzardo digitale. Gli altri sono consumatori occasionali poiché il business è incentrato sui patologici.
I riflessi sulla salute si possono ben definire, e non in modo intuitivo. La comunità internazionale dispone infatti di uno studio canadese del 2006 universalmente apprezzato. Combinando l’analisi di denaro e tempo di vita, l’indagine medica ha fissato la soglia, cioè il punto di demarcazione tra “innocuo” e “problematico” del gioco d’azzardo. E così, grazie a un complesso di esami clinici, i ricercatori del Policlinico universitario di Calgary (Stato di Alberta) hanno rilevato come il rischio diviene crescente a mano a mano che si supera la frequenza di tre volte al mese, e quando in denaro si oltrepassi un punto percentuale dell’ammontare del reddito familiare. Al di qua dell’Oceano, nella Svizzera che confina con noi, si sta per l’appunto verificando questa stima, per poi giungere a regolamentare la spesa massima consentita a ogni giocatore. Gli elvetici mirano così a prevenire i danni familiari, sociali e clinici.
Ebbene in Italia, e stando al solo azzardo online, se ogni giocatore “abitudinario” perde ogni anno 2.500 euro online, un gambler patologico lascia al tavolo verde digitale una cifra tripla, cioè 7.500: come dire 20,5 euro al giorno, festivi compresi. E ciò attesta la sottrazione di reddito familiare.
Ritornando al quesito sul tempo di vita per perdere questa somma, la persona con patologia da gioco resta incollato al display per oltre tre ore al giorno. È un dettaglio che sfugge allo staff della Business intelligence unit dei Monopoli, ma è perfettamente noto alle società concessionarie e nascosto al ministero della Salute.
A questo punto, completiamo il quadro e spingiamoci alle proiezioni sulla somma di tutti i giochi d’azzardo, di quelli distribuiti nei luoghi fisici e degli altri online: misuriamo il denaro bruciato e applichiamo il modello canadese di alert. Prima della pandemia, quando il reddito pro-capite in Italia era di 21.804 euro, le perdite al gioco (per tutti i tipi, online e non) superavano ampiamente il valore convenzionale di 1,04 per cento pro-capite (in media, neonati e ultracentenari compresi). Sul sottoinsieme di giocatori effettivi mostrava però ben altre quantità: quasi quattro punti del reddito pro-capite nella media dei 18 milioni e mezzo di italiani che almeno una volta avevano puntato del denaro.
Nel Paese che, sul finire del 2021, ha recuperato 6,4 punti percentuali sulla recessione economica provocata dalla pandemia, è difficile sfuggire al quesito essenziale, di natura sociale-finanziaria e insieme etico: è giusto il rilancio del gioco d’azzardo industriale di massa? Per riguadagnare i numeri della patologia del 2019, alle major servono proprio tre misure: l’App che faciliti e induca a frequentare i punti di azzardo, la ripartenza della pubblicità, il freno ai regolamenti dei Comuni. Mentre per un New Deal italiano c’è decisamente bisogno di voltare pagina, incentivando consumi essenziali e scoraggiando quelli tossici, in primis di azzardo.