L’arancia di Sicilia? Resta sull’albero. L’isola si conferma come il maggiore produttore italiano di questo frutto, tra i più amati della nostra tavola, eppure c’è un paradosso che si consuma annualmente all’ombra dell’Etna così come nel cuore verde di questo territorio. Il problema è la raccolta, specie quando la produzione supera ogni aspettativa e abbatte i prezzi già estremamente bassi. È successo ad esempio nel 2010, quando sono stati prodotti circa 18 milioni di quintali di agrumi, secondo i dati Istat. Una crisi che stritola da anni i 25mila produttori siciliani, che coltivano i circa 93mila ettari ad arance, limoni e mandarini, dando lavoro a 98mila persone tra diretti e indotto, escluso il settore del commercio. Piccoli proprietari terrieri, con appezzamenti di pochi ettari, che non riescono a far tornare i conti.Il calcolo è presto fatto. Per produrre un chilo di arance sono necessari 30 centesimi, mentre i commercianti li comprano tra i 15 e i 25 centesimi al chilo, per l’alta qualità destinata alla tavola. Per il prodotto da destinare all’industria, appena il 10 per cento, il prezzo è di 8-9 centesimi al chilo per le arance bionde e 10 centesimi per le arance rosse. Mentre il costo della manodopera ammonta a 80 euro al giorno. Motivo per cui risulta crescente la presenza di manodopera extracomunitaria, spesso pagata meno e a nero, con rischi enormi e una sponda in più all’infiltrazione della criminalità organizzata, che in tutta Italia si stima crei un danno all’agricoltura pari a sette miliardi e mezzo di euro, fra estorsioni, furti, forme di caporalato e abigeato.«La situazione siciliana è paradossale – afferma il presidente della Coldiretti dell’isola, Alessandro Chiarelli – perché, nonostante nell’attuale campagna agrumicola si registri una riduzione della produzione del 10 per cento, il costo del prodotto non è aumentato». Pesanti anche le critiche alla grande distribuzione, «che impone ai supermercati l’acquisto degli agrumi non siciliani. Questo è un atteggiamento francamente incomprensibile». L’invasione di prodotto da altri Paesi, come il Perù, il Sudafrica e la Tunisia, dove la produzione cresce e il costo del lavoro è inferiore, è una delle minacce più gravi all’agrumicoltura siciliana.Sembra evidente, allora, che occorre correre ai ripari. Finora l’unica ciambella di salvataggio è stata rappresentata dai contributi che l’Unione europea eroga ai coltivatori, circa 1.100 euro ad ettaro. L’ipotesi avanzata in Calabria di aumentare la percentuale di succo nelle bibite è guardata come una possibilità. «Non si supererebbe così la crisi – osserva il direttore della Coldiretti, Giuseppe Campione – ma di certo si andrebbe verso un consumo di prodotto più razionale e adeguato all’alimentazione». Ma gli addetti ai lavori puntano a incentivare il consumo domestico, «il saggio uso delle spremute potrebbe contribuire a risollevare il comparto ed educare a una corretta alimentazione i nostri ragazzi in tutta la Penisola – suggerisce Salvatore Rapisarda, presidente del consorzio Euroagrumi, che riunisce tremila ettari di agrumeti nella Sicilia orientale –. Con una politica sbagliata abbiamo perso l’Italia e ci siamo illusi di guadagnare mercati lontani, dove il prodotto arriva stanco. Per creare una vera concorrenza dobbiamo valorizzare l’alta qualità del nostro prodotto».