L'interno dell'Ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo, ancora al centro delle polemiche, nelle settimane drammatiche dell'epidemia - Fotogramma
Una breccia nel muro di gomma che si stava alzando attorno all’esplosione del Covid nell’ospedale di Alzano Lombardo. Ecco l’effetto del sofferto e drammatico sfogo di due operatori sanitari in servizio nel presidio della Val Seriana, pubblicato da Avvenire il 14 marzo scorso. Un grido quasi disperato, lanciato nell’angoscioso silenzio che stava avvolgendo la tragedia bergamasca, per denunciare cosa era andato storto il 23 febbraio, quando si scoprì il primo caso, e nei durissimi giorni successivi. Dalla riapertura del pronto soccorso, «incomprensibile » secondo i due operatori, fino alla presunta assenza di adeguate zone filtro e di percorsi interni differenziati (cui avrebbe posto rimedio solo l’intervento degli esperti dell’esercito), ora tutto è finito nel mirino della procura di Bergamo, che sta indagando anche sulla mancata istituzione della zona rossa e sulla strage nelle Rsa.
Ma anche la politica, nel frattempo, si è mossa. Partendo proprio dalla pagina di Avvenire, il giovane consigliere regionale Niccolò Carretta (Azione), bergamasco, presentò il 31 marzo un’interrogazione al presidente del consiglio lombardo per fare chiarezza sull’accaduto. Le risposte (sempre negate ai giornalisti, che le avevano chieste a più riprese in quei giorni) sono finalmente arrivate lunedì. Tre mesi dopo. E hanno rivelato dettagli importanti.
A partire dal numero di polmoniti sospette che già si erano manifestate ben prima dello sbarco ufficiale del Covid in Italia. Tra l’1 dicembre e il 23 febbraio, secondo l’Ats di Bergamo, all’ospedale di Alzano furono ricoverate 194 persone per polmoniti o virosi respiratorie. Nello stesso periodo, l’anno precedente, erano state 137. L’incremento si manifestò soprattutto nelle polmoniti causate da “agente non specificato”: 40 a dicembre, contro le 28 di fine 2018. A gennaio se ne contarono 52, contro le 34 di inizio 2019 e le 15 del 2018. Cifre sensibilmente in salita, che sembrano rivelare una situazione anomala. «Finalmente sono arrivate risposte ufficiali che il territorio attendeva da tempo – commenta Carretta –. I numeri parlano chiaro, perché non è suonato il campanello d’allarme? Il meccanismo deve essersi inceppato, ne avevamo i sospetti, ora anche i dati confermano che qualcosa non ha funzionato». L’Ats frena: «La semplice analisi della scheda di dimissione ospedaliera non consente di poter ascrivere tale diagnosi a casi di infezione misconosciuta da Sars-Cov-2». Ieri, in serata, è arrivata un’ulteriore precisazione: «Gli esiti del lavoro sui ricoveri consentono di affermare con discreta ragionevolezza come non siano riscontrabili evidenze statistiche» che facciano sospettare «una presenza precoce di ricoveri per polmoniti» da Covid in Provincia di Bergamo nel «dicembre 2019 e nel bimestre gennaio–febbraio 2020». L’Ats parla di fenomeno legato alla «stagionalità» e aggiunge che «la struttura di Alzano Lombardo mostra un trend coerente» con tale «valutazione». L’agente patogeno insomma resta «non specificato», ma l’Ats è sicura che non fosse Covid. Di conseguenza, non ci sarebbero casi Covid nemmeno tra i 145 «dimessi» con diagnosi di polmonite tra dicembre e febbraio. Conclusioni che per la verità stridono con uno studio realizzato proprio da alcune Asl lombarde, secondo cui il virus era in Regione e in bergamasca già a inizio gennaio.
A difesa del sistema sanitario orobico, l’Ats ricorda che i parametri del ministero della Salute imponevano di sottoporre a tampone solo i casi sospetti legati alla Cina, come da circolare del 27 gennaio. In quella del 22 gennaio, invece, si prescriveva di testare qualsiasi paziente sospetto, a prescindere dalla sua storia di viaggio. Il cambiamento di strategia, suggerito peraltro dall’Oms, potrebbe essersi rivelato fatale. Va ricordato infatti che il Covid è stato scoperto prima a Codogno e poi ad Alzano solo perché i medici, di fronte a sintomi gravi e inspiegabili, hanno deciso di forzare il protocollo e fare il tampone anche a chi nulla aveva a che fare con Wuhan. Mantenere il criterio prudenziale del 22 gennaio avrebbe potuto evitare il peggio? Se lo stanno chiedendo anche i pm. Ma l’interrogazione del consigliere Carretta è servita anche a sollevare ulteriormente il velo su quella maledetta domenica 23 febbraio, quando il pronto soccorso di Alzano improvvisamente chiuso dopo la scoperta del primo caso Covid bergamasco e poi riaperto. La relazione della direzione sanitaria dell’Asst Bergamo Est ricostruisce per filo e per segno quelle ore drammatiche. Immediatamente viene costituita un’unità di crisi, che segue in diretta l’evolversi della situazione. Dopo aver disposto tamponi al personale in servizio, “sanificato” i locali, sospeso l’attività ordinaria e previsto un “percorso d’accesso separato per i sospetti Covid”, arriva la decisione controversa. «Si concerta, con Areu e Regione Lombardia, la riapertura del pronto soccorso». Una scelta condivisa da ben tre soggetti, dunque. C’è poi la conferma che, diversamente dai primi giorni, i test vengono poi fatti solo agli operatori sintomatici, «come da indicazioni normative e considerata l’iniziale scarsità di tamponi e la disponibilità di soli tre centri esterni per le analisi». Alzano sospenderà già il 24 tutte le attività ambulatoriali, trasformando via via le sale operatorie in reparti Covid. Alla fine resterà aperto solo il reparto psichiatrico. Anche le altre strutture, spiega la nota, vengono convertite quasi interamente per ospitare le vittime del virus, fino ad arrivare a un totale di più di 400 posti letto occupati dai malati Covid. No comment invece sull’intervento dei medici dell’esercito. «Perché arrivarono solo 20 giorni dopo l’esplosione della pandemia?» chiede Carretta. Secca la risposta: «L’invio del contingente militare non rientra nelle attribuzioni di Asst Bergamo Est». Una scelta subita, par di capire.