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Cosa è successo ad Alzano Lombardo, piccolo ma altamente industrializzato centro della media Val Seriana? Perché uno dei due focolai lombardi di Covid-19 (l’altro è quello di Codogno) è divampato proprio lì? A venti giorni dal primo caso registrato presso l’ospedale locale, qualche indiscrezione inizia a filtrare. Dopo giorni passati in prima linea, tra turni massacranti e la paura di contrarre il male, due operatori sanitari del "Pesenti Fenaroli" rompono gli indugi e affidano il loro sfogo ad alcuni quotidiani, tra cui Avvenire. In una lettera tanto chiara quanto drammatica nei contenuti, denunciano i presunti errori che potrebbero aver influito sull’ondata di contagi che sta sconvolgendo la Bergamasca.
Il racconto parte fin dai primissimi, drammatici momenti, mentre tutta Italia guarda con apprensione a Codogno, ignara di quello che sta per succedere, che sta già succedendo in Val Seriana. «La prima anomalia si verifica nella giornata di domenica 23 febbraio – scrivono i due operatori, che chiedono l’anonimato –, quando, a seguito della diagnosi di positività di alcuni pazienti ricoverati in medicina e transitati dalla chirurgia e dal pronto soccorso, veniva presa la decisione di chiudere il pronto soccorso dell’ospedale. Solo poche ore dopo, incomprensibilmente, il pronto soccorso veniva riaperto, senza nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione immediata di triage differenziati né di percorsi alternativi per i pazienti che erano subito tornati ad afferire».
Momenti di confusione, forse comprensibili nella fase iniziale dell’epidemia, cui però sarebbero seguite disposizioni contradditorie, complicando di fatto il tentativo di circoscrivere il focolaio. «Nei giorni successivi – continuano –, diversi operatori, sia medici che infermieri del pronto soccorso ma anche di altri reparti di degenza, risultavano positivi ai tamponi per Covid-19, molti essendo sintomatici. Si sottolinea che tali tamponi erano stati eseguiti, in base a quelle che erano le indicazioni iniziali, sulle persone che erano venute in contatto con i casi accertati, pur in assenza di sintomatologia.
Nei giorni immediatamente successivi cambiavano le disposizioni, per cui tutti i contatti stretti (pazienti e operatori) delle persone accertate positive non venivano più sottoposti a tampone se asintomatici. Come pensare quindi di delimitare il contagio isolando i possibili vettori? Senza ricerca attiva di possibili positivi tra pazienti e operatori transitati nei reparti a rischio? In quei giorni, peraltro, venivano utilizzati Dpi (dispositivi di protezione personale, ndr) del tutto incompleti».
Problemi amplificati anche dalla struttura dell’ospedale, un presidio troppo piccolo per fronteggiare un nemico terribile e sconosciuto, con «reparti e spazi contigui e senza zone filtro, con transito continuativo di operatori tra i vari reparti che incrocia transito di pazienti ambulatoriali e parenti di degenti che si dirigono verso locali di ristorazione (macchinette del caffè), anch’essi angusti ed in genere molto affollati». Una situazione che sarebbe stata rattoppata, almeno in parte, dall’intervento dei medici dell’Esercito. «Solo all’inizio di questa settimana (a quasi un mese dal primo contagio), con l’arrivo di medici militari esperti nella gestione delle emergenze, si sono strutturati percorsi differenziati per limitare e contenere la diffusione del virus, ma i dispositivi di protezione personale scarseggiano e non tutti i sanitari né tantomeno i pazienti "negativi" ne vengono dotati».
Lo scenario, pur migliorato, resta dunque molto complesso e delicato: «Ad oggi i vari reparti specialistici sono stati chiusi con il trasferimento dei degenti in altri ospedali. Tutti gli spazi liberati sono stati destinati alla accoglienza di casi accertati di coronavirus necessitanti di ricovero. Sono ad oggi quattro le cosiddette Obi (reparti di osservazione breve internistica, ndr). Unica eccezione (e - riteniamo- anomalia) è il reparto di psichiatria, unico reparto specialistico di pazienti "negativi" al Covid-19, circondato da reparti ad alta contagiosità».
Parole sofferte, che nell’intento dei due operatori dovrebbero servire a scattare un’istantanea di quanto accaduto e quanto accade, senza la presunzione di additare responsabilità. Da noi interpellata, l’Asst Bergamo Est, cui fa capo l’ospedale di Alzano, non ha per il momento voluto rilasciare commenti.