Nonostante i profitti illegali delle ecomafie secondo l’Ocse viaggino al ritmo quasi 70 miliardi di euro all’anno, le statistiche raccolte dalla superprocura comunitaria Eurojust dimostrano che i crimini contro l’ambiente sono raramente perseguiti dalle autorità nazionali, spesso anche perché non dotate di strutture adeguate. L’allarme è arrivato alla fine del 2014 proprio dai vertici dell’unità di cooperazione giudiziaria dell’Ue, ma da allora neessuna mossa decisiva è stata compiuta da Paesi come l’Italia, che non è ancora entrata a fare parte in modo attivo del Network europeo dei procuratori per l’ambiente (Enpe). «La decisione di rafforzare il coordinamento a livello internazionale per la lotta ai crimini ambientali - hanno spiegato da Eurojust - nasce sia dalla crescente consapevolezza della necessità di un approccio più ampio, che dalla specifica richiesta di alcuni Stati mebri come Belgio, Gran Bretagna e Olanda, di migliorare la cooperazione e lo scambio di informazioni, per affrontare organizzazioni criminali di natura sempre più transnazionale». Per la belga Michele Coninsx, presidente dell’organismo europeo per la cooperazione giudiziaria, le ecomafie sono da considerare tra le priorità: «Un fenomeno sottostimato, che crea grande profitto, con un basso rischio di arrivare a processo, e pene non sufficientemente dissuasive». Secondo un recente rapporto delle autorità europee l’Italia è con l’Irlanda ai primi posti per i casi di export di rifiuti pericolosi verso Paesi terzi (soprattutto in Africa occidentale). Tra i Paesi che però si sono meglio si sono attrezzati con strumenti e strutture giudiziarie dedicate ci sono Gran Bretagna e Olanda, ma non l’Italia. «È fondamentale che gli organismi di cooperazione internazionale creino coordinamento vero e non solo sulla carta, perché accada occorre che siano messi in condizione di agire concretamente », osserva Laura Biffi dell’Osservatorio Nazionale Ambientale e Legalità di Legambiente. Strutture come Eurojust o il network dei procuratori europei per l’ambiente sembrano non riuscire ad andare oltre i pur dettagliati monitoraggi annuali. «La repressione, peraltro, non è sufficiente - insiste Biffi -, perché si tratta di reati difficilmente riparabili con la sola individuazione dei responsabili. I danni all’ambiente sono permanenti, perciò occorre immaginare iniziative di prevenzione a largo raggio». Le indagini degli ultimi anni confermano che le ecomafie sono sempre più globali e difficilmente contrastabili da un singolo stato. Com’è il caso della Repubblica Ceca nella quale, riferiscono da Eurojust, «si hanno evidenti segnali di come le mafie tradizionali siano ormai a capo del business dello smaltimento illecito, e indicazioni dello stesso genere arrivano anche dal Regno Unito». «Se ci occupiamo di trovare forme di coordinamento antiterrorismo - domanda Stefano Masini, responsabile Ambiente e territorio di Coldiretti -, perché non dobbiamo preoccuparci dei danni che le ecomafia fanno alla salute minacciando la sicurezza alimentare? La "Terra dei fuochi" non ha insegnato nulla?». Tra gli scopi che l’Enpe si è dato fin dalla fondazione vi è il «sostegno operativo ai procuratori ambientali, promuovendo lo scambio di informazioni», oltre alla condivisione delle «esperienze di indagini e dei procedimenti giudiziari». Ma in mancanza di un coordinamento interno per i reati ambientali, dall’Europa non sanno con chi confrontarsi in Italia. A tutto vantaggio dei pirati dell’ambiente.