lunedì 12 novembre 2012
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Una guida in «dodici passi» per non toccare più la bottiglia. Dialogo, ascolto, ammissione del problema e un «lavoro sulle proprie debolezze» per uscire dal tunnel. Il tutto nel più assoluto anonimato. Perché tutto ciò che si confessa durante una riunione rimane in quella riunione. Sono passati 40 anni dalla nascita del primo gruppo degli «Alcolisti anonimi» in Italia. Una tradizione incentrata sull’auto aiuto e importata nel nostro paese dagli Stati Uniti.«Ogni anno - raccontano i membri del gruppo di via Napoli, a Roma, il primo nato in Italia - 100 mila persone dipendenti dall’alcol si avvicinano ai 470 gruppi di alcolisti anonimi dislocati su tutto il territorio nazionale, anche se solo 10 mila di loro poi li frequentano con regolarità. Sono soprattutto i giovani e i maschi a rivolgersi a noi, spesso dipendenti anche da droghe oltre che dall’alcol. Alle riunioni partecipano poche donne, sono circa il 20%, ma non perché sono immuni al problema, piuttosto perché fanno più fatica ad ammetterlo e a uscire di casa».Il 10 novembre 1972, raccontano gli alcolisti anonimi, «un ingegnere romano, Carlo, dipendente dall’alcol, venuto a conoscenza dell’esperienza dei gruppi americani, decise di mettere un annuncio sui principali quotidiani della capitale invitando tutti gli alcolisti a incontrarsi per condividere il proprio disagio. Ai molti che si presentarono all’appuntamento, Carlo spiegò che l’alcolismo è una malattia e si può curare, ma bisogna stare insieme, aiutarsi tra alcolisti». Il metodo dei «dodici passi» e dell’auto aiuto nasce dal concetto che «un alcolista che ha smesso di bere ha una grandissima capacità di raggiungere e aiutare l’alcolista che ancora beve». E il dialogo quotidiano, assicurano i membri del gruppo che ieri, in occasione del 40/mo anniversario hanno organizzato una «riunione» allargata, «tiene lontani dalla bottiglia».Ma in Italia la cultura dell’auto aiuto «non è così diffusa come in altri Paesi - denunciano - manca l’informazione sul ruolo degli alcolisti anonimi. Le istituzioni e le leggi non sono d’aiuto: non basta obbligare una persona a seguire tre anni di terapia in una comunità per farla guarire. Una volta fuori per lei sarà tutto come prima. Incontrarsi quotidianamente, parlare dei propri problemi e delle proprie debolezze, ascoltare gli altri senza giudicarli: questa è la giusta terapia».
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