Fermo immagine di uno dei centri libici tratto da "Report" del novembre 2017 - Ansa
Fuoco incrociato sull’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Da una parte la protesta dei rifugiati detenuti nei centri governativi in condizioni inumane e le conseguenti critiche dei media e degli attivisti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il mancato intervento e la mancata protezione ai detenuti. Dall’altra la situazione sempre più drammatica per il conflitto in corso e per l’indisponibilità dei Paesi occidentali ad accettare i ricollocamenti dei rifugiati e le evacuazioni, bloccando i profughi nei centri in un Paese con un governo sostenuto dall’Onu, ma che non ha firmato la Convenzione di Ginevra per i rifugiati. Un circolo vizioso drammatico con un’emergenza umanitaria in corso che ha messo sulla graticola lo staff guidato dal capo missione Jean Paul Cavalieri, in Italia in questi giorni in Italia per un’audizione alla Camera. Cavalieri ha accettato di parlare con Avvenire.
Qual è la situazione dei richiedenti asilo nei centri di detenzione sotto il controllo di Tripoli?
Dei 43mila richiedenti asilo in Libia, circa 2mila sono trattenuti arbitrariamente in detenzione. In tutto, sono 3mila i rifugiati di cui abbiamo conoscenza. Un numero in calo. Dal settembre 2017 sono state oltre 4mila le persone evacuate dalla Libia, di cui circa 3mila in Niger nel transito d’emergenza finanziato dall’Ue. L’anno scorso sono state evacuate 2.500 persone, oltre 800 in Italia. Rimane allarmante la situazione dei rifugiati nelle zone urbane, con persone che pagano le guardie per accedere ai centri di detenzione sperando che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati possa identificarli e ricollocarli in altri Paesi. Nel 2019 abbiamo trattato con le autorità libiche per entrare in 15 centri e preparare le evacuazioni. E fatto rilasciare un terzo dei detenuti registrati, circa 1.780 persone.
43mila
I richiedenti asilo che si trovano in Libia, dei quali 2mila trattenuti arbitrariamente in regime di detenzione
800
15
I centri di detenzione ufficiali oggi operativi in Libia. Ma secondo i dati Global detention project vi sarebbero almeno altri 33 lager in mano a trafficanti
Quanti profughi sono state bloccati in mare dalla Guardia costiera e riportati in Libia?
Per il conflitto in corso c’è una totale disconnessione tra Guardia costiera e Dcim (l’unità che risponde al ministro dell’Interno per il contrasto all’immigrazione clandestina in mano alle milizie) per cui il numero non viene comunicato. Stimiamo che un terzo sia stato lasciato andare una volta a terra.
I migranti imprigionati vi accusano di non fornire assistenza. Ci sono malati di Tbc e si registrano decessi di soggetti vul- nerabili e persone torturate. Perché non intervenite?
Da due mesi non riusciamo più a raggiungere i centri a causa del conflitto. E i direttori sono in realtà miliziani integrati nel ministero degli Interni e combattono. Questa è la realtà. Non ci lasciano entrare. Occorre poi chiarire alcune cose. I centri di detenzione sono del governo, che li gestisce. A causa della guerra il supporto del ministero delle Finanze ai servizi come il catering, molto costoso e appaltato a società private, è venuto a mancare. Noi non abbiamo il compito di nutrire le persone nei centri di detenzione, è compito dello Stato libico. Che non è in grado di farlo, tanto che le autorità in alcuni casi hanno deciso di aprire le porte dei centri di detenzione. In altre situazioni i centri sono stati utilizzati dalle milizie come basi militari. I richiedenti asilo fuori dai centri di detenzione, ovvero la maggioranza, cercano il supporto della nostra organizzazione, ma non sempre il Centro comunitario diurno a Gurji, nel distretto di Tripoli, riesce a fornire assistenza umanitaria. Il pacchetto di assistenza monetaria urbana dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia ha raggiunto solo il 5% della popolazione. L’anno scorso infine abbiamo effettuato oltre 30mila visite mediche, 42.500 tra rifugiati e sfollati hanno ricevuto aiuti e 1.800 famiglie hanno incassato aiuti economici in contanti perché non riusciamo ad accoglierli. Conosciamo la situazione, sappiamo che ci sono abusi nei centri e la situazione dei diritti umani è preoccupante. Noi facciamo pressioni per le evacuazioni, ma non possiamo garantirle.
Jean Paul Cavalieri: «Rimane allarmante la situazione dei profughi nelle zone urbane, con persone che pagano le guardie per accedere ai centri di detenzione» - .
Quali criteri di scelta utilizzate per tirare fuori la gente dai centri?
Prima le donne con bambini, minori non accompagnati e malati. Purtroppo siamo fermi e il centro Gdf di Tripoli per le persone da ricollocare è sovraffollato. Non abbiamo Paesi dove collocarli. Ce ne sono più di 700 fuori dal centro. Offriamo loro alternative, diamo loro quattrini e assistenza. Veniamo criticati per questo, ma in tutto il mondo ci sono stati solo 55mila ricollocamenti di rifugiati l’anno scorso, su 1.250.000 richieste: meno dell’1%. In Libia, nel 2019, abbiamo ricollocato il 5% dell’intera popolazione dei rifugiati. Non basta, certo, eppure siamo sopra la media. Le critiche sono il prezzo per lavorare in Libia. Social media e attivisti per i diritti umani ci attaccano anche perché non entrano più migranti nel Gdf. Che è di proprietà del ministero degli Interni. Non possiamo garantire a nessuno l’evacuazione dalla Libia. Non bisogna illudere nessuno.
12.500
Il valore in dollari di una vita nel lager libico "non ufficiale" di Bani Walid: è il prezzo che viene richiesto ai parenti all’estero per liberare i prigionieri
274
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1.300
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Per accelerare le evacuazioni non si può chiedere ad altri Paesi africani di diventare Paesi di transito come Ruanda e Niger?
Intanto i meccanismi di transito in Ruanda e Niger andrebbero estesi. È positivo che la Norvegia abbia detto che nel 2020 accoglierà 600 rifugiati che abbiamo trasferito in Ruanda. E i Paesi di destinazione finale come Svezia, Germania, Francia devono aumentare. Abbiamo bisogno di più meccanismi di ricollocamento e più corridoi umanitari, come ha fatto l’Italia. Che ha indicato la volontà e l’interesse di continuare nel 2020. Per quanto riguarda paesi di transito come l’Etiopia, Sudan e Ciad, i migranti in Libia sono stati per anni nei campi, senza trovare sostentamento. Per prevenire viaggi molto pericolosi e trasferirvi chi sta nei centri libici, occorre potenziare questi strumenti. Però dobbiamo convincere chi sta in Libia a muoversi, perché lì sono vicini all’Europa e considerano una sconfitta tornare indietro.
Un’inchiesta dell’Ap a fine dicembre ha denunciato la corruzione nei centri, dove le milizie intascherebbero i fondi Ue. Come potete lavorare con miliziani che sono anche trafficanti sulla lista nera stilata dal Consiglio di sicurezza?
Dobbiamo stare ovunque ci siano rifugiati anche in situazioni complicate e lavorare per proteggerli e farli rilasciare. Questo è il nostro compito e perciò trattiamo con chi abbiamo davanti. I responsabili dei centri sono sì miliziani, ma anche funzionari di un governo riconosciuto. Noi seguiamo protocolli e linee guida e cerchiamo di no trattare con trafficanti. Ma forse tocca alla comunità internazionale essere più presente in Libia.