martedì 14 novembre 2023
Viaggio dentro "l'epidemia delle solitudini". Solo 403 posti letto per chi tra i 13 e i 17 anni vive situazioni di profondo disagio. "Non è stata solo colpa del Covid"
.

. - .

COMMENTA E CONDIVIDI

La parola è la migliore cura per situazioni di sofferenza psichica estrema degli adolescenti, che possono portare al suicidio. Una parola che si fa discorso, competente, ma soprattutto umano e compassionevole, per entrare in relazione con la sofferenza mentale dei giovani. Per questo occorre vincere la tentazione di nascondere ogni discorso riguardante la morte, anche autoprovocata, di giovani e giovanissimi. È uno dei messaggi chiave emerso dalla due giorni del convegno “Oltre il buio”, organizzato la scorsa settimana dalla Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Npia) della Fondazione “Mondino” Irccs di Pavia, diretta da Renato Borgatti, per «comprendere e prevenire i comportamenti suicidali negli adolescenti». «Volevamo individuare le specificità dei casi che riguardano gli adolescenti, molto diversi da quelli dell’adulto – spiega Renato Borgatti, direttore della Npia della Fondazione Mondino e docente di Neuropsichiatria all’Università di Pavia –. E abbiamo offerto una sessione destinata al pubblico, perché è importante parlare del fenomeno, vincere il tabù».

Anche se non è sempre facile raccogliere i dati epidemiologici, “viziati” da fenomeni distorsivi, hanno evidenziato Cristina Montomoli (docente di Statistica medica all’Università di Pavia) e Antonella Costantino (direttrice della Neuropsichiatria infantile della Fondazione Irccs Policlinico di Milano) i reparti di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza sono concordi nel registrare negli ultimi anni un aumento delle richieste di aiuto, spesso con comportamenti autolesivi o tentativi suicidari dei più giovani. «Un fenomeno manifestatosi da almeno una decina d’anni – ha riferito Elisa Fazzi, presidente della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sinpia) – ma esploso negli ultimi anni». Mettendo in crisi un sistema di assistenza che può contare su soli 403 letti in tutta Italia per i ricoveri in Neuropsichiatria infantile, e cinque Regioni ne sono del tutto prive.

Secondo una statistica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) più volte citata nel convegno, i suicidi sono la seconda causa di morte per i giovani tra i 15 e i 29 anni, dopo gli incidenti stradali (anche se recentemente, dividendo ulteriormente le età, è scesa al terzo-quarto posto per alcune fasce). Certamente, come ha ricordato il sociologo Marzio Barbagli, ciò dipende dal fatto che i giovani sono sostanzialmente sani e quindi muoiono poco di malattia: «Né si può dimenticare che anche il tasso di suicidi è ben maggiore tra gli anziani: sei volte superiore tra gli over85».

Le raccomandazioni dell’Oms per la prevenzione dei suicidi puntano su quattro azioni principali: limitare l’accesso ai metodi letali; interagire con i media per una modalità responsabile di riportare le notizie di suicidio; sostenere le abilità socio-emotive in adolescenza; identificare precocemente, prendere in carico e curare chiunque presenti comportamenti suicidari.

«La prevenzione del suicidio dei giovani –, ha spiegato lo psichiatra Maurizio Pompili (Università La Sapienza di Roma) – è difficile. Occorre cogliere i segnali di allarme, perché non lo dicono in maniera chiara: tra questi il decadimento della performance scolastica, l’isolamento sociale, la promiscuità, l’uso di sostanze o la tendenza all’automedicazione, problemi di salute posti all’attenzione dei medici e non riconosciute come collocabili in un versante più ampio come quello di un rischio suicidio».

Pompili, che è anche direttore del Servizio per la prevenzione del suicidio presso l’ospedale Sant’Andrea a Roma, ribadisce che «il suicidio è la punta di un iceberg che è la sofferenza giovanile, che era già presente nell’epoca precedente alla pandemia. Il Covid ha reso tutto più complesso, soprattutto per i giovani». Dati statunitensi, ha aggiunto, indicano che tra il gennaio 2019 e il maggio 2021 sono cresciuti i ricoveri in Pronto soccorso per tentativo di suicidio della popolazione 12-17 anni, soprattutto tra le ragazze. «In Italia – ha aggiunto Pompili– secondo i dati del Rapporto Osservasalute 2022, tra il 2019 e il 2021 si è abbassato l’indice di salute mentale della popolazione 14-24 anni, soprattutto tra le ragazze».

A far peggiorare gli indici di socializzazione, ha puntualizzato Pompili, non è stata solo la pandemia: «Sono numeri in calo sin dal 2000: assistiamo a una epidemia di solitudine». E spesso rivolgersi al cyberspazio espone a nuovi rischi: «Il cyberbullismo sembra essere aumentato durante la pandemia – aggiunge Pompili – ed è connesso al rischio suicidio. Stime non facili indicano che ne è colpito un giovane su sei (soprattutto ragazze), ma solo uno su dieci riesce a chiedere aiuto. E ha puntualizzato che «il suicidio ha a che fare con il neurosviluppo, non con il singolo brutto voto o la delusione sentimentale».

Nei meandri della sofferenza mentale dei più giovani si è addentrato Mario Speranza, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di Parigi-Versailles. Delle crisi che viviamo (disastri ambientali, terrorismo, guerre) infatti risentono anche gli adolescenti, soprattutto se hanno vissuto traumi relazionali: «Sono le situazioni in cui il bambino/adolescente non ha potuto vedere soddisfatti i bisogni fondamentali che aveva nell’infanzia. L’ambiente abusivo/negligente, specie familiare, non è stato capace di prestare attenzione agli stati mentali e ai bisogni emotivi del bambino, rimasto solo emotivamente con stati di insicurezza. È come se questi bambini avessero sviluppato un ritardo nello sviluppo delle autoregolazioni, sul piano delle emozioni, del comportamento, della stima di sé e soprattutto delle relazioni con gli altri». Quindi soprattutto «il trauma relazionale ha creato una profonda sfiducia nell’ambiente esterno e le informazioni che vengono dall’esterno possono essere percepite come pericolose o irrilevanti». Il giovane «ha perso la capacità di imparare dagli altri: è il concetto della diffidenza, della sfiducia epistemica. Tutto ciò che proponiamo a questi adolescenti non è utilizzabile, perché la porta relazionale è chiusa». «È fondamentale – conclude Speranza – che il terapeuta possa incarnare l’umanizzazione, il calore e la compassione che non hanno potuto sperimentare, per poter cercare di ricreare questa fiducia epistemica».

Come ha esemplificato lo psicoterapeuta Antonio Piotti (Istituto Minotauro): «Non si possono dire banalità, ma mostrare di accorgersi che l’adolescente sta male e che lo si capisce: cerchiamo insieme un’uscita dal vicolo, che a lui sembra cieco». Mentre, ha messo in guardia la psicoterapeuta Stefania Andreoli, non è vero che parlare dei casi di suicidio li alimenti. Bisogna però parlarne bene, senza enfatizzarli, ha puntualizzato Chiara Davico (Neuropsichiatria dell’Università di Torino) e senza presentarli come eroi romantici, che favoriscono il cosiddetto effetto Werther (dal romanzo di Goethe) mentre occorre sviluppare l’effetto Papageno (personaggio del Flauto magico di Mozart), che mostra la possibilità di aiuto guardando in modo diverso a problemi che paiono insolubili (e Papageno.news è il sito sviluppato in collaborazione con il master in giornalismo di Torino per incrementare una informazione corretta sui suicidio).

Conclude Maurizio Pompili: «Occorre entrare in sintonia con sofferenza e far emergere la voglia di vivere. Molte persone che pensano a morire vorrebbero vivere: il dolore mentale fa credere loro di essere in una situazione senza via d’uscita migliore per uscire dalla sofferenza che il suicidio. Ma se la sofferenza è gestita anche con l’aiuto di un altro, genitore, educatore, coetaneo, professionista della salute, si sente alleggerito dalla sofferenza e sceglie di vivere». Una possibilità di aiuto che quindi coinvolge tutti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: