Walter Veltroni, 63 anni
Qui sotto la prefazione scritta dal vescovo di Bologna Matteo Zuppi al nuovo libro di Walter Veltroni – Roma. Storie per ritrovare la mia città (con Claudio Novelli, Rizzoli, pagine 400, euro 19). Si tratta del racconto dei giorni che Veltroni ha vissuto da sindaco di Roma.
Queste intense pagine di Veltroni sono come tanti capitoli dei tanti imprevedibili incontri e avvenimenti della sua avventura come sindaco di Roma. Ci aiutano a ripercorrere un pezzo importante della storia recente della Capitale, attraverso i suoi occhi e la sua passione per lacittà e la politica. Come ogni ricostruzione è personale e, in quanto tale, può essere oggetto di discussione, ma aiuta a capire la complessità dei problemi, delle sfide che ha dovuto affrontare e che ha fatto sue. Dobbiamo uscire dall’agonismo della politica ridotta ai «mi piace», vissuta come una campagna elettorale continua, in cui ci si confronta poco sui contenuti e sulle visioni e tutto viene usato per schierarsi, mentre ci si scontra brandendo semplificazioni e imponendo immagini più che soluzioni, e soluzioni ridotte a immagini. Il rischio è di amplificare sempre e in maniera stentorea ciò che divide, perdendo la capacità indispensabile di cercare quello che unisce al di là delle diverse sensibilità e finendo prigionieri di stereotipi superficiali, ma che danno identità. Leggiamo queste pagine per comprendere un uomo, la sua città, il suo sforzo per renderla migliore, la tanta umanità e le persone descritte.L’attore principale del libro non è tanto Veltroni, le sue scelte e come le ha realizzate, ma la città. Roma. Veltroni volle fin dall’inizio non essere di parte, mosso dalla «voglia di dedicarmi alla mia città, di occuparmi di cose concrete, della vita delle persone in carne e ossa, dei loro problemi». E volle far festa non al Campidoglio («Non è un luogo di cui si possa appropriare, anche se solo per una notte, una singola parte») ma a piazza Santi Apostoli.
Mi sembrano questi i principi che rendono interessante la lettura per tutti, perché il libro nasce dalla scelta, per la quale non esitò a rinunciare ad altre possibilità certamente più comode e meno rischiose, di stabilire un rapporto diretto con i cittadini: «Si ha l’occasione di fare cose concretee di vedere i risultati delle proprie azioni, ma allo stesso tempo gli errori o l’inerzia sono sotto gli occhi di tutti, come è giusto che accada». Insomma è la gioia, a volte accompagnata dalla delusione di non realizzare i progetti desiderati e nei tempi necessari e possibili, di risponderealle domande dei cittadini. Veltroni mi sembra voglia dimostrare, a sé e ai romani, che vale la pena vivere e fare politica, cioè avere cura del bene comune e delle persone. Pur nell’ufficialità del suo ruolo, emerge la volontà di costruire legami autentici, di vera amicizia, duraturi nel tempo, non limitati nel contingente, come con i parenti delle vittime del disastro di via Ventotene. Per aiutare una città che sia davvero luogo di relazioni e non somma di individui, per impedire che diventi un pericoloso serbatoio di rancori che rendono tutti più elettrici e aggressivi, e per far sì che diventi un posto dove si impara e si vive l’arte di incontrarsi c’è bisogno di visione, di gestione e anche di tanta, indispensabile umanità.Non si può fare il sindaco di Roma come se fosse una città qualunque: c’è bisogno di una grande capacità umana che interpreti le caratteristiche della Capitale.
Papa Francesco chiede spesso di guardare la città in modo contemplativo e di confrontarsi con l’orizzonte concreto della vita. Occorre farlo, ripete con insistenza, partendo dalle periferie umane e geografiche, perché solo da queste si può comprendere tutto il resto. E senza precomprensioni, non da lontano, in maniera ideologica o indifferente. Non servono analisti distaccati o teorici che restano «al balcone» (a Roma diremmo sulla terrazza o nei salotti, buoni o meno che siano), ma uomini che incontrano le persone con le loro domande a volte contraddittorie, spesso nascoste e da interpretare ma non per questo meno vere, meno piene di sofferenza e di attesa. Per rendere migliore la città non servono protagonisti affannati e preoc cupati del proprio piccolo, ma uomini capaci di sguardo largo, di comprensione intelligente, convinti che questo convenga a tutti e sia possibile per tutti. Proprio papa Francesco elogiò quanti «contribuiscono con piccoli ma preziosi gesti concreti al bene di Roma: cercano di compiere al meglio il loro dovere, si muovono nel traffico con criterio e prudenza, rispettano i luoghi pubblici e segnalano le cose che non vanno, stanno attenti alle persone anziane o in difficoltà, e così via. Questi e mille altri comportamenti esprimono concretamente l’amo re per la città. Senza discorsi, senza pubblicità, ma con uno stile di educazione civica praticata nel quotidiano. E così cooperano silenziosamente al bene comune. Ugualmente sento una grande stima per i genitori, gli insegnanti e tutti gli educatori che, con questo medesimo stile, cercano di formare i bambini e i ragazzi al senso civico, a un’etica della responsabilità, educandolia sentirsi parte, a prendersi cura, a interessarsi della realtà che li circonda. Queste persone, anche se non fanno notizia, sono la maggior parte della gente che vive a Roma. E tra di loro non poche si trovano in condizioni di strettezze economiche; eppure non si piangono addosso,né covano risentimenti e rancori, ma si sforzano di fare ogni giorno la loro parte per migliorare un po’ le cose. [Sono] artigiani del bene comune, che amano la loro città non a parole ma con i fatti».
La città ha bisogno di artigiani del bene comune, capaci di affrontare situazioni diverse con umanità e intelligenza. Direi che Veltroni cerca di essere uno di questi. Come tante persone che incontriamo nel suo libro. Al termine di una riunione a Villa Borghese, dove si era presentato improvvisamente attratto dal tema dell’ambiente, il papa dette ai romani un compito a casa. «Guardate un giorno la faccia delle persone quando andate per la strada: sono preoccupati, ognuno è chiuso in se stesso, manca il sorriso, manca la tenerezza, in altre parole l’amicizia sociale, ci manca questa amicizia sociale. Dove non c’è l’amicizia sociale sempre c’è l’odio, la guerra. [...] L’amicizia sociale si deve fare con il perdono – la primaparola –, col perdono. Tante volte si fa con l’avvicinarsi: io mi avvicino a quel problema, a quel conflitto, a quella difficoltà. [...] L’amicizia sociale si fa nella gratuità, [...] parola da non dimenticare in questo mondo, dove sembra che se tu non paghi non puoi vivere, dove la persona, l’uomo e la donna, che Dio ha creato proprio al centro del mondo, per essere pure al centro dell’economia, sono stati cacciati via e al centro abbiamo un bel dio, il dio denaro. [...] Gratuità che fa sì che io dia la mia vita così com’è, per andare con gli altri e fare che questo deserto diventi foresta. Gratuità, questa è una cosa bella!» Senza l’amicizia, che papa Francesco chiama «sociale», il negativo si accumula e diventa pesante per tutti. La città può generare paura, qualche volta immotivata, spesso manipolata e amplificata dai toni, ma resta sempre un indicatore di disagio e dei problemi da affrontare. Se non c’è chi la sa interpretare, non compiacere o amplificare, la paura si traduce in modalità rivendicative e distruttive. Parlando proprio di Roma, papa Benedetto ricordava come «c’è in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto». E aggiungeva: «La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsiin diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso! I mass media tendono a farci sentire sempre spettatori, come se il male riguardassesolamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti attori e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri».
Artigiani del bene comune, attori. Ecco la sfida che deve coinvolgere tutti, a partire dal primo cittadino, percontribuire a costruire una città non di individui ma di persone e per sconfiggere il vero inquinamento che è quello dell’anima, di cuori che non si incontrano più e che rischiano di non avere riferimenti comuni, condivisi. È pericoloso «l’inquinamento dello spirito» diceva papa Benedetto, «quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia. La città è fatta di volti, ma purtroppo le dinamiche collettive possono farci smarrire la percezione della loro profondità. Vediamo tutto in superficie. Le persone diventano dei corpi, e questi corpi perdono l’anima, diventano cose, oggetti senza volto, scambiabili e consumabili». Occorre rendere viva e umana una città che può diventare un deserto impossibile per tutti, attraversata da tanta solitudine, con un tessuto umano frammentato a cominciare dal degrado delle periferie, abbandonate e così poco rappresentate. «Non dobbiamo avere paura di andare nel deserto per trasformarlo in foresta; c’è vita esuberante, e si può andare ad asciugare tante lacrime perché tutti possano sorridere» invitava papa Francesco.
Questo libro raccoglie tante lacrime di sofferenza deicittadini e Veltroni sembra metterle delicatamente in un piccolo contenitore per conservarle, perché preziose, distillato di tanta umanità. E con esse tanti sorrisi e gioie regalate. Roma ci fa rivivere la città con le sue contraddizioni e con la possibilità di farne un luogo capace di rispondere alle sfide e anche di svolgere il suo ruolo di pace, con la presenza così particolare del successore di Pietro. Occorre, però, «partire dalla vita concreta delle persone», sapendoche «non esistono problemi piccoli, troppo piccoli perché il sindaco o un assessore non debbano trovare il tempo di occuparsene». La consapevolezza è che «una città cresce davvero solo se cresce tutta insieme, senza separazione tra centro e periferie, diffondendo qualità e sviluppo su tutto il territorio». Bisogna cercare quello che è davvero prezioso: «Essere una comunità unita, e non la somma di singole persone sole, perché questo significherebbe lasciar fuori o ai margini chi vive nel disagio, chi soffre o è più sfortunato».
Questo comporta tantissime scelte, dal Piano regolatore generale a un Piano regolatoreper le politiche sociali; dalla costruzione di una nuova linea della metropolitana alla semplificazione della burocrazia; dalla riqualificazione urbana alla tutela del dirittoalla sicurezza; dalla sistemazione dei parchi a quella dei mercati; dall’illuminazione delle strade alla battaglia per smantellare i cartelloni pubblicitari abusivi; dall’impegno per avere più asili nido a quello per sbloccare le grandi opere che potranno contribuire a fare di Roma la capitale anche dello sviluppo produttivo del Paese. Come ogni innamorato, Veltroni parla di lei descrivendone le persone ma anche menzionando le cose fatte e quelle riattivate, trasmesse alle giovani generazioni per rendere Roma città non solo del passato. Credo che Veltroniconservi anche il rammarico per quelle che si sarebbero potute fare, l’amara consapevolezza delle occasioni perdute, ma sempre cercando di ricucire una convivenza lacerata profondamente. Penso per esempio a «Valerio Verbano, che il 22 febbraio 1980 fu barbaramente ucciso appena tornato a casa, davanti ai genitori, per mano di neofascisti appartenenti ai Nar, che rivendicarono la sua uccisione, per quanto poi a quella sigla non seguirono mai i nomi dei colpevoli. Ma anche a ragazzi della parte politica opposta. Come Paolo Di Nella, il militante del Fronte della gioventù che una sera di febbraio del 1983 fu aggredito e colpito a morte da estremisti di sinistra in piazza Gondar, mentre affiggeva manifesti che pubblicizzavano una raccolta di firme per espropriare e riqualificare Villa Chigi. In quegli anni morirono molti giovani che avevano scelto la militanza politica. Pagarono con la vita l’assurdità di un tempo chiuso in una gabbia fatta di odio ideologico e di contrapposizione violenta.
È doveroso ricordare. Gli uni e gli altri. E se qualcuno ancora non vede quanto sia “naturale” far questo, quanto sia semplicemente giusto intitolare una via della città a un ragazzo vittima di una violenza lontana, la risposta è proprio qui: nel fatto che finalmente quel tempo buio, il tempo delle ideologie e dell’odio, il tempo in cui da una parte e dall’altra si era costretti a piangere vittime di destra e di sinistra, è finito». Il periodo raccontato è pieno di profondissimi cambiamenti. Del resto la città cambia continuamente, come cambiamo noi. Quando non si fa niente non si resta fermi: si va indietro, si peggiora. Penso che sia da cuore vecchio dire che Roma non è più quella di prima. Perché non è mai stata quella di prima! Eppure le città, e Roma in particolare, sono quelle di sempre, con la loro storia incredibileche si interseca continuamente con la cronaca. Storia e cronaca che domandano, però, una visione, perché senza questa si rischia di non aprire la città e trattarla come fosse una città qualunque. L’uomo non è un’isola.
L’individualismo e la solitudine determinano relazioni malate e ci chiedono di accettare la sfida di una città a misura d’uomo. Occorre sempre cercarla nelle periferie, come anche nei luoghi più anonimi e nascosti (ma lo sono davvero?Sono loro invisibili o siamo noi che non vogliamo e non sappiamo più vedere?), lontani dalle case. Sì, ha ragione papa Francesco che, in visita al Campidoglio alla fine di marzo del 2019, ha riconosciuto Roma «maestra di accoglienza». «Roma, città ospitale, è chiamata [...] a adoperare le sue energie per accogliere e integrare, per trasformare problemi e tensioni in opportunità d’incontro e di crescita.» Bisogna costruire una comunità di destino per i suoi abitanti. Esiste infatti il problema di una «società a pezzi», che la politica non ricompone, mentre spesso si sviluppa un dolente individualismo. Non possiamo smettere di cercare – come in occasione del convegno sui «mali di Roma» del 1974, voluto dall’allora vicario, cardinal Ugo Poletti, da monsignor Clemente Riva e da don Luigi Di Liegro – di leggere i «segni dei tempi» nella città, mai abituandoci ai mali per capire e costruire il bene. Il libro di Walter ci restituisce la serena convinzione che tutto ciò è possibile. «Roma, perciò» ancora nelle parole di papa Francesco, «in un certo senso obbliga il potere temporale e quello spirituale a dialogare costantemente, a collaborare stabilmente nel reciproco rispetto; e richiede anche di essere creativi, tanto nella tessitura quotidiana di buone relazioni, come nell’affrontare i numerosi problemi che la gestione di un’eredità così immensa portanecessariamente con sé» Con la passione di questo libro e con tanta e cara umanità.