giovedì 29 agosto 2024
La testimonianza di monaci, eremiti, anacoreti che hanno fatto dell’ascesi solitaria una scelta di vita: il loro rifiuto del mondo e delle sue seduzioni li mette di fronte a Dio
Beato Angelico, "La Tebaide", 1420, particolare

Beato Angelico, "La Tebaide", 1420, particolare - WikiCommons

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Vero silenzio è essenza di pensiero. Questa pare una delle lezioni del monachesimo, esemplificata dalla celebre pagina delle Confessioni in cui Agostino descrive Ambrogio immerso nella lettura silenziosa: nell’antichità infatti la lettura anche individuale veniva sempre fatta a voce alta. «Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la lingua e la voce riposavano. Sovente lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente».

Non a caso, all’elenco dei sette peccati capitali, il domenicano Guillaume Peyraut ne aggiunge un ottavo: il peccato della lingua. Come diceva Isacco di Ninive: «Ama il silenzio: ti reca un frutto che la lingua non è in grado di descrivere». O Gregorio di Nazianzeno, che di fronte all’immensità di Dio chiede di elevare «un inno di silenzio». I Padri del deserto costituiscono il modello principe della scelta a favore del silenzio: il deserto esteriore diviene la via per il deserto interiore. La solitudine, il rifiuto del mondo con le sue seduzioni è una prova di verità per l’eremita, lo mette faccia a faccia con Dio e spesso con il demonio. Il loro non è affatto uno spiritualismo vuoto e disincarnato, un cristianesimo incapace di guardare avanti e propenso a recriminare e a invocare il bel tempo perduto. Nessuna nostalgia degli agi della cristianità ma nemmeno volontà di rinchiudersi in una fortezza orgogliosa ed egoistica, col rischio poi di farsi prendere dalla depressione spirituale. Quell’accidia che i monaci hanno sempre conosciuto bene e sperimentato, assai prima di Freud.

Riflessioni che scaturiscono dopo la lettura del volumetto Violentissima dolcezza. I detti dei Padri del deserto appena uscito da Magog Edizioni a cura di Andrea Ponso (pagine 106, euro 16). Attraverso citazioni di brani efficacissimi di Antonio e Poemen, Agatone ed Efrem, emerge in tutta chiarezza il deserto spirituale dei secoli in cui il cristianesimo si era affermato nell’impero romano dopo le persecuzioni, ma anche quello che viviamo oggi. Lo dice abba Felice rispondendo a chi lo interroga provenendo dal mondo e sollecitando un’illuminazione: «Volete ascoltare una parola? Adesso una parola non è più possibile». E Ponso nella prefazione può chiosare: «Non è più che mai oggi, proprio questa, la nostra condizione? Non siamo in un deserto, anche senza abitarvi geograficamente, proprio al centro di un turbinio infinito di parole che sono solo comunicazione e quasi mai lotta, comunione e generazione? Non è forse il nostro deserto costruito dalla sabbia infinita di tante, troppe parole sprecate in ogni ambito, purtroppo anche in quello poetico? Non siamo noi stessi, in gran parte, questo stesso deserto, incapaci di comunità e terrorizzati dalla singolarità e dalla solitudine?».

«Adesso una parola non è più possibile», sembrano ripeterci i Padri del deserto. Silenzio e umiltà, e poi lotta perenne contro il potere – anche quello dell’uomo sull’uomo –, il successo e la lussuria: sono questi i caratteri essenziali di chi vive in estrema solitudine e povertà ed è questa la lezione principale che deriva dalle loro sentenze formidabili. «È beato quel monaco che si ritiene la spazzatura di tutti», dice padre Nilo. E padre Sisoes di rimando: «È cosa grande vedere se stessi al di sotto di ogni creatura». A sua volta padre Zenone dice: «Non abitare in luogo rinomato, non intrattenerti con persone famose, e non gettare mai le fondamenta per costruirti una cella». Come suggerisce ancora Ponso, i Padri del deserto e i loro detti non vanno mummificati né considerati una sorta di abbellimento intellettuale. La parola che pronunciavano diventava «pratica performativa vivente» perché si faceva «carne viva e ferita». Per questo ci possono parlare anche oggi. Come si legge in un altro apoftegma: «Un fratello che viveva con altri fratelli chiese al padre Bessarione: “Cosa devo fare?”Dice a lui l’anziano: “Taci, e non misurare te stesso”».

La coscienza di non sapere e la lontananza dai vizi non fanno di questi eremiti dei filosofi stoici che praticano l’atarassia, cioè l’assenza di passioni. Se il pensiero antico ha combattuto le passioni perché rendono l’uomo schiavo e non libero, il cristianesimo ribalta il discorso perché è vita, lotta, fuoco. E ancora una volta pratica della sobrietà e del silenzio, che ci consentono o di non precipitare in quella che Gilbert Keith Chesterton mirabilmente definì «la libertà di parlare solo di cose irrilevanti» che caratterizza il nostro tempo.

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