Per quale motivo affermiamo che un fiore è bello? Perché, grazie alle geometrie e alle proprietà sensibili che lo caratterizzano, il fiore incarna ed esprime in modo significante una qualità preziosa che risiede in noi, che istintivamente riconosciamo essere vitale, «un occhio che veglia su di noi dal vasto mare interiore della bellezza», testimonianza dell'eterna armonia presente nella natura dell'universo, troppo vasto, misterioso e vero per essere compreso dal puro intelletto. Quando affermiamo che il fiore è bello ne cogliamo intuitivamente qualcosa. Quando diciamo «è bello» significa che una nostra qualità essenziale si riconosce nel fiore, o riconosce in esso qualcosa che le appartiene; significa, quindi, che il fiore fa vibrare dentro di noi una corda di risonanza spirituale. La stessa cosa vale, a un livello ancora superiore, per l'opera d'arte. L'opera d'arte è infatti la massima espressione dell'anima umana e, quindi, ancora più umanamente spirituale. Essa contiene i tratti essenziali del pensiero umano e tracce emozionanti del suo sentire; racchiude, in altre parole, l'impronta più autentica dell'uomo, e ce la offre utilizzando le stesse qualità che ci spingono a esclamare che il fiore è bello. La vera essenza dell'opera d'arte risiede nella bellezza essenziale e assoluta presente nel risultato creativo finale dell'artista, più che in qualsiasi altro significato materiale o senso estrinseco essa possa avere. Manca tuttavia, a noi occidentali, la capacità di riconoscere questa qualità soggettiva dell'opera in modo rapido e immediato, o forse, piuttosto, il saperla percepire istintivamente. Poiché siamo privi di questa sensibilità che ci rende indifferenti di fronte al potere vivificante dell'arte, non ci è dato di entrare nel recinto sacro del tempio e restiamo confinati in un regno materiale, oggettivo, realistico e quindi irreale. Per mancanza di una «capacità disciplinata di vedere» ci sfugge ciò che nell'arte è veramente essenziale. Un aspetto fondamentale nello studio di questo argomento è che l'arte giapponese, pur essendo caratterizzata da una grazia spontanea, è un'arte compiutamente strutturale, e lo è in modo sostanziale, indipendentemente dal mezzo espressivo utilizzato e da qualsiasi altro elemento. Nel disegno l'elemento che definiamo «struttura» è in primo luogo la forma pura, organizzata, modellata e composta per «costruire» l'idea, un'idea che deve sempre convincere della propria ragionevolezza. La geometria è, per così dire, la grammatica della forma, il suo principio architettonico. Se dovessimo provare a rendere conto in modo esauriente e convincente della ragione per cui alcune forme geometriche sono giunte a simbolizzare e a evocare potentemente idee, stati d'animo e sentimenti dell'essere umano " il cerchio, per esempio, evoca l'infinito; il triangolo, l'unità strutturale; la guglia, un ideale; la spirale, lo sviluppo organico; il quadrato, l'integrità " ci allontaneremmo troppo dal tema della trattazione. È pur vero però che percepiamo più o meno distintamente, nelle sottili differenze tra queste forme geometriche elementari, una qualità psichica che potremmo definire «potere magico» della forma, con il quale l'artista gioca liberamente, sentendosi a suo agio come il musicista con le note alla tastiera del pianoforte. L'artista giapponese comprende la forma penetrandone la geometria interna, avendone ben chiara l'efficacia spirituale. Indipendentemente dall'apparente semplicità, vaghezza o evanescenza del soggetto da lui trattato, egli accoglie e riconosce la geometria come sua ossatura estetica: non solo come ossatura in termini strutturali ma, in virtù di ciò che abbiamo definito potere magico simbolico, come anima evocativa dell'opera. La capacità di analisi geometrica dell'artista giapponese appare, a uno sguardo attento, del tutto miracolosa. Egli riconosce in ogni cosa una geometria interna, per poi farla svanire nel mistero per colui che osserverà l'opera finita. Eppure, pur sfuggendo in un primo momento allo sguardo di chi osserva, se ne percepisce chiaramente la presenza. Con questa sensibilità per la forma geometrica e per il suo valore simbolico, l'artista è in grado di penetrare nel nucleo più nascosto della realtà. L'artista giapponese, infatti, non analizza soltanto il significato e l'importanza individuale della natura del pino, ma intende studiarlo altrettanto attentamente all'interno del suo ambiente, nel suo elemento naturale; un elemento che, se abbiamo definito la geometria grammatica della forma, potremmo chiamare, con uguale privilegio di linguaggio figurato, sintassi. Per acquisire tale conoscenza, l'artista si dedica con passione allo studio dell'albero, lo osserva in modo analitico e amorevole; poi se ne allontana e con il pennello inizia a ritracciarne, seguendo il ricordo, la positura e le relazioni interne. Lo studio contemplativo procede dalla visualizzazione dei tratti generali fino ai minimi particolari; non appena riconosciuti i primi elementi che costituiscono lo scheletro della struttura " evidenti per esempio nelle analisi di Hokusai " il processo di sviluppo grammaticale e sintattico diviene più rapido. Se tutti i pini dovessero improvvisamente scomparire dalla terra, grazie alla sua conoscenza di questi alberi l'artista potrebbe fornire disegni e descrizioni particolareggiate di ogni singola specie, dal momento che ha studiato, conosciuto e fatta propria la natura specifica e distintiva del pino. Quando utilizzo il termine natura nel senso che le si attribuisce in Giappone non mi riferisco all'aspetto esteriore che colpisce l'attenzione " come un'immagine ottica che si riflette sul vetro smerigliato di un apparecchio fotografico " ma a quell'armonia interna che permea la forma esteriore e che ne costituisce il carattere decisivo; mi riferisco insomma a quella qualità interna, secondo quanto abbiamo detto all'inizio, che ne costituisce il senso ultimo e l'essenza e che Platone chiamò, con consapevolezza psicologica ancor prima che metafisica, l'«idea eterna della cosa». L'artista giapponese è un vero poeta. Nell'antico Giappone la vita deve essere stata senz'altro un'esperienza di comunione continua con l'anima divina della natura. Nello sviluppo della sua civiltà, il popolo giapponese si è ispirato infatti a una visione originaria della legge della natura, e ha creato un corpo di principi morali e norme-sociali trasformando in rigide convenzioni forme e processi naturali; in questo modo la civiltà giapponese è divenuta un'opera d'arte. Non vi è lezione più preziosa di quella offerta da questo popolo, che ha fatto della sua terra e dell'architettura, dei giardini, dei comportamenti sociali e dell'abbigliamento, degli utensili, degli ornamenti e delle divinità un organismo coerente, un'unità ispirata a una comunione attiva, spontanea e inevitabile con la natura. Qualsiasi aspetto della vita del popolo giapponese " anche quello più infinitesimale " che non era in unione con la natura veniva rivendicato dall'arte e, quindi, redento.