domenica 30 marzo 2014
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Per la qualità narrativa, il linguaggio rigo­glioso, l’afflato culturale, il romanzo Il col­lare della colomba (Marsilio, pagine 590, euro 21,00) della saudita Raja Alem ha me­ritatamente conquistato l’International Prize for Arabic Fiction ed è in corso di tra­duzione in molti Paesi. Sarà presentato gio­vedì a Venezia, all’auditorium Santa Margherita di Ca’ Foscari alle 14.30, nell’ambito del festival “Incroci di ci­viltà”, un palcoscenico davvero appropriato per una scrittrice che vive tra Gedda e Parigi e, come dice, «è posseduta dallo spirito del viaggio. Vedo la vita in gene­rale – ci dice Raja Alem – come un viaggio fra il corpo e fuori dal corpo, fra il nostro io interiore e quello esteriore, fra l’uno e il molteplice. Cerco il punto di incrocio fra la vita e la morte, avanti e indietro, questo è il mio scopo, raggiungere questa capacità di andare nell’altro mon­do e tornare indietro». L’andirivieni tra simbolo e realtà è l’essenza del roman­zo, che vuol essere un omaggio alla sua città natale, La Mecca, tanto che la voce narrante è una strada, Aburrus, il malfamato Vicolo delle Teste dove una donna viene uccisa e un’altra scompare e le loro storie, come quelle dei loro innamorati, s’innestano nelle vicende della città, soggetta a un’urbanizzazione selvaggia. «Anche La Mecca è legata al tema del viaggio, l’islam crede che sia il punto dove Adamo, il padre dell’uma­nità, atterrò quando lasciò il Paradiso, è la destinazione dove l’uomo dovrebbe portare le idee e l’immaginazio­ne a materializzarsi. Fin dalla nascita mi ha dominato lo spirito di atterrare e decollare. Quando avevo venti giorni mio padre annunciò di voler emigrare, il che spa­ventò mia nonna e pensando fos­si io l’incarnazione del genio del viaggio mi bruciò un poco le pian­te dei piedi, solo per estinguere quello spirito». Il titolo, preso dal libro di un filo­sofo e poeta musulmano nato nel-­l’XI secolo a Cordova, vuole rinno­vare l’antica lezione di coesistenza tra le religioni monoteiste? «Ibn Hazm dedicò il suo lavoro al­l’armonia fra islam, ebraismo e cri­stianesimo, creando un ambiente dove la cultura poteva fiorire e di­ventare universale. Con il suo libro voleva rinforzare i ponti fra le na­zioni attraverso l’amore, ed è così anche per me, poiché io vedo l’a­more come l’unica via d’uscita dal dolore del nostro mondo. Quando vediamo l’altro non come uno straniero ma come una parte di noi, siamo un’unica completa unità che si materializza in diversi corpi, quindi non possiamo mai disprezzarci a vicenda, né schiacciare gli altri con indifferenza, per quanto ci faccia sentire potenti». Per definire il suo stile bisognerebbe prendere a presti­to il termine di “realismo magico” di solito usato in am­bito latinoamericano, aggiungendo però l’inimitabile incanto delle “Mille e una notte”. «Le Mille e una notte è stato il primo libro a influenzar­mi, così come influenzò Borges. Poi mi sono immersa nelle letterature internazionali: inglese, russa, francese, tedesca, italiana, latinoamericana e giapponese, e da quell’oceano infinito sono tornata alla nostra letteratu­ra antica scoprendo la bellezza di libri come il Corano, che ha influenzato il mio stile con i suoi ritmi musicali e le sue leggende. E poi sono arrivata a scoprire i nostri affascinanti antichi libri arabi, come L’animale di Al-Jahiz, che ti porta in un viaggio con una singola lettera e in quella ti fa scoprire un universo. Sono cresciuta senza vedere barriere fra le diverse letterature del mon­do, ho preso da tutte e creato il mio linguaggio personale». Le due protagoniste presenti-as­senti, Azza e Aisha, e gli uomini che le amano, assumono un significa­to simbolico?«Azza significa “Grazia”, mentre Ai­sha significa “Vivente”, rappresen­tano le nostre umane debolezze e grandezze, la lotta che portiamo a­vanti in questa vita mettendo in at­to la forza con gentilezza. I perso­naggi maschili si avvicinano alle donne in modi diversi: Yousuf è os­sessionato dal passato e identifi­ca Azza con La Mecca, il suo è un amore spirituale e la tra­sforma in un idolo. Muaaz nelle sue fotografie coglie le donne dietro il velo ne­ro che si frappone fra loro e il mondo, per portarle alla luce del sole. Khaleel è l’amore contraddit­torio, combattuto fra il trattare le donne come qualcosa di proibito e nello stesso tempo di sfruttato. Tutti questi uomini sono un solo a­mante, ciascuno necessario per far risorgere le donne dalla loro cornice paralizzante». Lei ha fondato, insieme a sua sorella, un’asso­ciazione culturale saudita rivolta al sostegno del­l’istruzione e della creatività femminile, per inco­raggiare un percorso di consapevolezza e di eman­cipazione. «Sono nata in una famiglia molto conservatrice in una città come La Mecca, dove il nome delle donne non ve­niva pronunciato in pubblico, tuttavia all’interno di que­sti vincoli ho sempre scritto con il mio vero nome e ho scritto sulla vita, sulla sua sconvolgente sensualità, la sua gloria e la sua corruzione. Noi possiamo fare le no­stre scelte a patto che ce ne prendiamo la responsabi­lità. Quanto potremo andare lontano se rimaniamo fer­me a ripeterci che siamo nate vittime? Ho lavorato con donne attive nei campi dell’educazione e della solida­rietà, che hanno fatto davvero la differenza in Arabia Saudita, hanno creato migliori programmi di studio e di attività per permettere alle ragazze di esprimere la pro­pria creatività. L’attivismo per come l’ho conosciuto io non significa andare nelle strade in corteo a chiedere la libertà, è un lavoro concreto e quotidiano per creare am­bienti adatti a far germogliare la libertà.» © RIPRODUZIONE RISERVATA Intervista. La scrittrice saudita: «Quanto potremo andare lontano se rimaniamo ferme a ripeterci che siamo vittime? Ma non servono cortei, bensì lavorare ogni giorno per la libertà».

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