Sempre più tolstojano, Ermanno Olmi: profetico, ascetico, pacifista. Sulla soglia degli 83 anni è tornato dietro la macchina da presa per dirigere un nuovo film, atteso nelle sale per il prossimo autunno. «Smentisco me stesso, lo so. Prima annuncio l’addio e poi torno a girare – ammette –. Ma questa volta non potevo sottrarmi ». Il risultato è
torneranno i prati (la minuscola è di rigore, su esplicita disposizione di Olmi), poetico e a tratti onirico racconto della Prima guerra mondiale. Non un episodio preciso, per quanto la ricerca che ha preceduto l’elaborazione del film sia stata meticolosa fin nel dettaglio. Le divise, per esempio, sono state modellate su quelle dell’epoca, ma non portano mostrine. Impossibile stabilire a quale battaglione appartengano i soldati intrappolati in una trincea dove, in una notte d’autunno del 1917, a ridosso della disfatta di Caporetto, arriva un ordine al quale non tutti obbediranno. Autentico è in ogni caso lo scenario dell’altopiano di Asiago. Qui Olmi vive da tempo, qui durante la Grande guerra caddero cinquantamila soldati, arrivati da oltre venti nazioni. «Eppure – commenta il regista – fu l’ultima guerra a conservare qualche elemento di umanità. Subito dopo sono venute le tecnologie e le ideologie che hanno reso terribile la Seconda guerra mondiale. Adesso viviamo nell’era del conflitto globalizzato, talmente diffuso da non essere neppure più percepito. Certo, i soldatini del ’15-’18 non si facevano domande, non si chiedevano perché fossero lì con il fucile in pugno. Erano la generazione del latifondo, ragazzi consapevoli di essere meno preziosi di una mucca agli occhi del padrone. Poveri com’erano, avevano la capacità di riconoscere i poveri che stavano dall’altra parte, in una trincea che, sull’Altopiano, poteva distare anche solo pochi passi. Si sentivano i rumori da una parte all’altra, ci si ascoltava, ci si spiava. All’occorrenza, però, ci si concedeva una tregua. Come la storia del soldato canterino, no? Una figura che ritorna da un fronte all’altro, questa del napoletano che porta il rancio cantando a squarciagola, ed è così bravo che nessuno gli spara addosso. Tutti si fermano, quando lo sentono. Un desiderio di pace che, per un attimo, si realizza»Prodotto da Cinema Undici e Ipotesi Cinema in collaborazione con Rai Cinema,
torneranno i prati schiera un cast di poche star, tra cui Claudio Santamaria. Le comparse vengono tutte da Asiago e dintorni. Durante le riprese, concluse da qualche settimana, gli uomini del posto si sono lasciati crescere la barba, hanno tirato fuori i moschetti dei nonni e li hanno portati sul set, che è una trincea ricostruita su due quote diverse. Poco sotto i duemila metri ci sono gli esterni, sommersi più volte dalle nevicate. Poco sopra i mille metri, invece, ecco il camminamento con le feritoie, il dormitorio della truppa, la baracca del capitano. «Avremmo potuto adoperare un teatro di posa – spiega Elisabetta Olmi, figlia e collaboratrice del regista – ma gli attori non avrebbero avuto la faccia da freddo, non si sarebbero sfregati le mani, non si sarebbero stretti nel cappotto». In diverse oc- casioni, professionisti e non professionisti si sono ritrovati a piangere. Più di commozione che per stanchezza. «Sì, ho voluto celebrare la Grande guerra – rivendica Olmi – ma tenendomi alla larga dalle bandiere, dai monumenti, dalle versioni ufficiali. La vera celebrazione, secondo me, consiste nel cercare di capire che cosa è successo, per impedire che si ripeta. Mi pare che le analogie fra la cronaca di oggi e quanto accaduto un secolo fa siano sempre più numerose e inquietanti. Avverto un tremore dentro di me, specie quando penso al comportamento vergognoso tenuto dall’Italia nel 1914. Il nostro Paese non entra in guerra subito, com’è noto. Prende tempo per mercanteggiare le condizioni, per valutare con chi convenga schierarsi. Ci sarebbe il patto di non belligeranza verso l’Austria, ma alla fine è proprio contro l’Austria che gli italiani si armano, perché Francia e Inghilterra rappresentano un vantaggio per l’espansione economica. Ecco, adesso capite perché, ogni volta che sento nominare l’Europa e i mercati, mi metto in allarme?». La Grande guerra Olmi l’ha conosciuta in casa, attraverso i ricordi del padre, che a diciannove anni partì per il Carso come bersagliere («Ce ne parlava spesso, ma l’esperienza non è un pacco postale del buon senso. Ognuno deve capire da sé, non c’è scampo »). Ha anche letto moltissimo: Gadda, Lussu, il De Roberto della
Paura. Senza dimenticare la lezione del suo amico Mario Rigoni Stern, «uno dei pochi scrittori rimasto anzitutto testimone », sottolinea. Da ultimo ha deciso di attenersi alle memorie di tanti soldati senza nome, proprio come senza nome sono i personaggi del film. «Le generalità anagrafiche magari ci sarebbero – aggiunge – ma per gli storici non contano nulla. Bisogna ascoltare queste voci anonime per capire che cos’è la guerra. Non l’epidemia di un virus sconosciuto ma, al contrario, il manifestarsi di un morbo conosciutissimo, la cui diffusione risale al momento in cui gli esseri umani si sono suddivisi in comunità. I conflitti nascono dalle difficoltà, anche minime, alle quali ciascuno di noi reagisce malamente, con atti di viltà e omissione. Il volto del nemico ci sorprende, perché a volte è il nostro stesso volto. Anche per questo c’è un senso di sonnolenza che prevale quando venti contrari addensano nubi burrascose: un torpore nel quale si cerca rifugio per ignorare la vigilia di una catastrofe. È quello che stiamo facendo in questi anni, illudendoci che il fallimento sia un problema della finanza, una questione contabile. Ma il vero fallimento è sempre morale. E la guerra, la più grande stupidità criminale di cui l’uomo possa macchiarsi, ne è la dimostrazione più evidente. La disobbedienza, a sua volta, si costituisce come atto eroico, morale, solo quando si è disposti a pagare con la morte. È allora, dopo che tutto si è consumato, che i prati tornano a fiorire».