La lavorazione di “Firenze e gli Uffizi” (2015), prodotto da Sky con Magnitudo Film
Il documentario d’arte sta vivendo una nuova primavera. Al cinema e in tv, specie tra Rai 5 e Sky Arte, gode di un’offerta ormai stabile e diversificata, e di un pubblico di affezionati in crescita. Sulle reti generaliste ormai non stupiscono più gli exploit dei programmi di Alberto Angela. Certo, si potrebbe obiettare che il reiterarsi dei soggetti (i tesori italiani o una manciata di artisti) è indice della difficoltà di deragliare dalla palette di gusti del pubblico non propriamente estesa. Non dimentichiamo però che ci stiamo muovendo in un ambito di intrattenimento e di mercato e che non mancano operazioni che provano ad ampliare l’offerta tematica. In molti casi siamo nel campo della “consumer experience”, una categoria del marketing, dove l’esperienza dell’utente deve essere un evento memorabile e che tocca i sensi, le emozioni, il pensiero. Il moltiplicarsi di discutibili mostre digitali, con riproduzioni ad alta definizione al posto delle opere e nei cui titoli non a caso ricorre la parola “ experience”, è sotto molti punti di vista parte dello stesso fenomeno.
Eppure sembra di poter vedere in queste produzioni audiovisive la volontà di uscire dall’alternativa tra mercato o cultura per un binomio positivo di mercato e cultura, cercando un equilibrio virtuoso tra vera divulgazione e intrattenimento. Per raggiungere l’obiettivo di un prodotto che sia al tempo stesso qualificato e appetibile a un pubblico ampio, sono almeno due le piste che accomunano produzioni cinematografiche e televisive, al di là delle rispettive linee editoriali. La prima è la cura estetica dell’immagine unita allo sfruttamento delle potenzialità delle nuove tecnologie digitali – vero difetto dell’era del tubo catodico, incapace di restituire la bellezza dell’opera originale.
La casa di produzione Magnitudo Film, ad esempio, muove dall’esperienza in campo pubblicitario: «Da lì abbiamo mutuato il tipo e la cura dell’immagine – spiega Francesco Invernizzi – ma non i contenuti. L’idea è stata da subito fare un prodotto fin dall’origine di taglio cinematografico. La sfida era far sì che le persone un giorno di pioggia uscissero di casa e andassero al cinema pagando un biglietto per vedere un film d’arte. Abbiamo puntato sulla tecnologia digitale e l’alta definizione del 4K e ora dell’8K, che consentisse di esperire l’opera in maniera inedita. Questo ha fatto la differenza nelle nostre produzioni», realizzate in collaborazione con Sky Cinema d’Arte (braccio produttivo diretto da Cosetta Lagani), come l’ultimo Caravaggio - L’anima e il sangue, e ora anche da indipendenti. Movimenti di macchina, angolature e visuali “impossibili”, particolari estremi, grande profondità di campo. Anche per Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Cultura, il legame con la tecnologia è centrale: «La realtà aumentata, i droni, le nuove telecamere consentono di passare da un racconto dell’arte passivo, tipico della struttura televisiva “da uno a molti”, a uno immersivo. Penso sia interessante consenti- re al pubblico di entrare nell’opera con maggiore ricchezza di dettaglio. Sono tutti strumenti che aiutano la televisione a fare di più e meglio, con soluzioni venti anni fa inimmaginabili. Si aumenta così il valore del racconto, che può muoversi a più livelli».
Il secondo elemento comune è la ricerca di una specificità del linguaggio narrativo in equilibrio tra intrattenimento e rigore scientifico. «Uno degli aspetti fondanti del nostro lavoro – dice ancora Invernizzi – è la presenza di una validazione scientifica dai massimi esperti. Per Caravaggio abbiamo avuto Claudio Strinati e Mina Gregori. Per gli Uffizi Antonio Natali. Per i Musei Vaticani Antonio Paolucci. Cerchiamo l’autorevolezza come un vero e proprio format». Su Sky Arte, ad esempio, si possono trovare due volti del contemporaneo come Achille Bonito Oliva e Francesco Bonami. Silvia Calandrelli racconta del «lavoro immenso in due sensi: prima di tutto vincere la diffidenza degli studiosi verso il mezzo televisivo. Dall’altra abbiamo chiesto loro di mettersi in gioco: inventarsi un nuovo linguaggio. Sono emersi casi eclatanti come Claudio Strinati o, sul fronte degli storici, Alessandro Barbero. Io sono molto chiara nelle regole di ingaggio: il nostro obiettivo è il pubblico. Vogliamo che la gente si senta parte di una comunità che ha interesse ad approfondire. In questo gli studiosi ci hanno seguito ».
In sintesi, l’esperienza degli ultimi tempi è dunque rivolta all’elaborazione di nuovi modelli di racconto che tengano insieme il valore scientifico senza la scarsa telegenicità della lezione accademica, e la spettacolarità delle immagini senza la banalizzazione dello spot patinato. Se dall’estero arrivano ancora molti programmi, tra documentari, reportage di mostre e informazione negli ultimi cinque anni nei palinsesti e in locandina le produzioni nel nostro paese sono cresciute. Si potrebbe forse dire che sta nascendo una via italiana al documentario artistico. «Il modello storico è quello anglosassone, tipico dei prodotti della Bbc: un po’ freddo, distaccato – spiega Invernizzi –. Noi cerchiamo di restituire un aspetto più umano». Per Palladio, film indipendente di Magnitudo Film sul set in questi giorni, la cura scientifica è dell’architetto Gregorio Carboni Maestri e vede gli interventi tra gli altri di Kenneth Frampton, Lionello Puppi, Peter Eisenman, oltre a chi ancora vive e difende le architetture del gigante veneto: «Ma non sarà una biografia né una visita guidata alle sue opere. Cerchiamo linee narrative nuove. In questo caso costruiamo una sorta di road movie tra Veneto e Stati Uniti per mostrare e far capire il peso e la portata storica dell’architettura di Palladio e da lì muovere per parlare del presente».
Testimonia il ruolo dell’Italia l’esperienza a Milano dell’hub europeo per le produzioni culturali dove Sky Arte produce per tutti i paesi coperti dalla piattoforma di Rupert Murdoch: «Differenziamo il linguaggio rispetto alla destinazione – spiega il direttore della rete Roberto Pisoni – I prodotti per il canale italiano privilegiano una forte localizzazione. Quelli destinati alla distribuzione all’estero, come Italian Seasons e Master of Photography, sono girati in inglese e con figure internazionali. Ma soprattuto siamo stimolati a una riflessione costante sulla forma del documentario. Come italiani siamo portati a costruire il documentario in modo narrativo ed emotivo. I paesi anglosassoni sono più abituati a una narrazione più didascalica. All’inizio trovare un giusto compromesso è stato complicato, ma anche divertente. L’uso della musica, ad esempio, è diverso. Per noi ha funzione narrativa e drammatica, per loro è più sottofondo. Tutto questo diventa esponenziale in un format come un talent show. Eppure non ha compromesso l’esito internazionale dei nostri documentari».