Il Piave mormora da cent’anni e da cent’anni anche il Brenta non fa che scorrere sotto il ponte di Bassano, quello dove – chissà perché – gli alpini si stringono la mano. Sempre da un secolo c’è una tradotta in partenza da Torino «e la va diretta
al Piave», mentre sul monte Ortigara risuona l’eco di lugubri «ta-pum / ta-pum / tapum »... Oggi un po’ meno perché
l’Italia sta perdendo la voglia di cantare (o meglio, la investe in tutt’altri karaoke di prima serata); ma comunque ancora moltissimi – tra singoli e cori – tramandano viva la tradizione delle canzoni popolari della Grande Guerra. Se c’è infatti una prova che il ’15-’18 fu davvero evento «di popolo», la si trova nel repertorio delle
cante alpine: da
Sul cappello a
Sul pajòn, da
Era una notte che pioveva a
Bombardano Cortina... Anche se – in verità – la prima sorpresa per chi scava tra i testi semplici e le melodie orecchiabili diffuse a tutto lo Stivale partendo da quelle trincee, è scoprire che gran parte delle hit in grigioverde sono tutt’altro che nate al ritmo del cannone, almeno di quello del Carso o d’Adamello: alcune infatti risalgono a ben più antiche battaglie e altre invece sono state tranquillamente scritte a tavolino come opera «d’autore» (uno su tutti: il compositore dilettante ma prolificissimo E. A. Mario, pseudonimo del napoletano Giovanni Gaeta, autore di successi indiscussi come
E le stellette che noi portiamo e
La leggenda del Piave, che inizia appunto col celebre verso del mormorio). Certo: immaginare che un versetto perentorio e marziale come «Non passa lo straniero! »
venne cantato per la prima volta con accompagnamento di mandolino potrebbe far strano (eppure fu proprio così!); ancor di più sapere che l’inno risale soltanto al giugno 1918, ovvero quando il 24 maggio 1915 – giorno dell’entrata in guerra del nostro Paese – era passato da un bel pezzo, anzi per fortuna si intravedevano le avvisaglie della pace. Ma lo stupore dovrebbe servire a rivedere non pochi luoghi comuni correnti sulle canzoni attribuite a quel conflitto – e su quelle «alpine» in generale.
Ta-pum? Ripete il rumore dei fucili, sì, ma prima ancora quello delle cariche che saltavano durante la costruzione del traforo del San Gottardo, onomatopea importata dai minatori trentini che vi lavorarono dal 1872 al 1880.
Addio, mia bella, addio? In realtà è una marcia risorgimentale, cantata dai volontari a Curtatone e Montanara nel 1848. Il funereo
Monte Nero? Probabilmente risale a una canzone ottocentesca dedicata a un brigante milanese detto appunto «il Nero».
Il testamento del capitano? Deriva da una ballata dedicata al marchese di Saluzzo ed è di ascendenza addirittura cinquecentesca... Si potrebbe continuare a lungo in questa rcerca di genealogia canora. Del resto proprio la pratica del «riuso» di motivi precedenti e la mole delle varianti, delle storpiature, delle parodie (attestata da antologie anche molto precoci, come quella di Piero Jahier e una
addirittura del cappellano padre Agostino Gemelli, oltre che da quella «definitiva» stampata nel 1981 in due volumi da Virgilio Savona e Michele Straniero), testimoniano la derivazione genuinamente popolare di queste canzoni. Anche se i superiori comandi non tardarono a intuire la valenza psicologica del canto come strumento per distrarre e tenere alto il morale della truppa e infatti commissionarono composizioni direttamente a professionisti (nell’autunno 1918 per l’inno della Terza Armata venne indetto addirittura un pubblico concorso che raccolse ben 62 partecipanti), pezzi in cui tromboneggia un tono trionfalistico lontanissimo dal realismo delle prime linee.Pure la retorica lugubre e nostalgica perpetuata da troppe esecuzioni «alpine» forzatamente solo maschili, andrebbe tuttavia ridimensionata: nei repertori della Grande Guerra si trovano infatti anche
parecchia scanzonatezza, ironia, persino sberleffi (ferocemente censurati se scoperti, è ovvio) contro i generali che mandavano a morire come carne da macello i figli dei poveri contadini. Oggi ben meno note dei classici
Dove sei stato, mio bell’alpino? e
Monte Canino, negli accampamenti circolavano elementari ma esplicite composizioni antimilitariste magari imbastite su ariette da varietà di Petrolini: «Il general Cadorna davvero è un gran portento/ con undici avanzate ha preso il Tagliamento!»; «Il battaglione Edolo sta sempre sulle cime/ e quando scende a valle el roba le galline»; «
Tu piglia ’nu fetiente, eccoti fatto lu sergente»...
Innocenti antidoti alla disciplina, inoffensive proteste di gente abituata da secoli a mugugnare contro i “padroni” ma poi – giunti al dunque – ad obbedire in silenzio; d’altronde il vero eroismo non si dà mai troppo peso. Così nelle pietraie del Carso o nel fango di Caporetto, i cafoni del Sud trovarono certamente modo d’intendersi sulla materia col popolino del Nord, anche a suon di musica. Sebbene infatti la tradizione accrediti la maggior parte delle
cante belliche al solo corpo degli Alpini, dunque a genti settentrionali dal Piemonte al Veneto al Friuli, non mancano (e sarebbe peraltro da chiedersi come mai non si siano prodotti o conservati con uguale abbondanza) esemplari provenienti da altri regioni, da diversi dialetti: «
Tristu l’adiu ti dogu» pare cantassero ad esempio i soldati sardi lasciando l’isola (si traduce «triste ti do l’addio »), mentre i napoletani imprecavano salendo il monte San Michele «
Va vattenne, va vattenne, sparagnece ’a sagliuta» («Vattene via, risparmiaci la salita»). Persino un successo della canzone partenopea come
’O surdato ’nnammurato («Oj vita, oj vita mia...») – peraltro opera di compositori professionisti – nacque nel 1915 ispirandosi proprio ai militari partiti per l’«inutile strage». Ma ancor più curiosa suona la filastrocca che nell’ottobre 1918 i bambini dei dintorni di Vicenza appresero a memoria – pur senza capir nulla – direttamente dalle truppe inglesi del corpo di spedizione inviato colà: «
Gud baie, don saie..., trascrizione fonetica di una canzone che in italiano si sarebbe tradotta «Addio, non sospirare...». Insomma, la Grande Guerra compì una funzione di mescolanza polifonica nazionale dei cui esiti abbiamo risentito fino a oggi, musicalmente ma ancor più culturalmente. Come dichiara il sito di uno del Coro alpino Orobica, uno dei più creativi d’Italia: «Il canto alpino è un
unicum italiano, che non ha paragoni nemmeno nelle altre nazioni vicine, e – lo si voglia o no – è stato ed è tuttora un cemento nazionale». Sì, l’Italia è una repubblica fondata (anche)
sul pajòn...