Da antico studioso di Antonio Rosmini, ritengo positivo tutto ciò che contribuisce a gettare luce sulla dialettica Chiesa-beni materiali. Chi ha avuto infatti tra le mani
Le Cinque Piaghe della Santa Chiesa del prete roveretano sa che l’amico di Manzoni e interlocutore attento del conte Camillo Benso di Cavour ha fornito un quadro concluso ed esauriente, sul piano teorico, dei rapporti tra Chiesa e beni economici. Non è questo né il luogo né il momento di trattarne, ma mi porto dentro la convinzione che un’attenta lettura della quinta delle
Cinque Piaghe, dedicata dal Roveretano a questo tema («La servitù de’ beni ecclesiastici»,
ndr ), contenga tutti gli elementi necessari addirittura per una trattazione che potrebbe costituire una vera e propria «ecclesiologia dei beni». Un’ecclesiologia che ha stimolato assai poco i teologi di professione, che hanno sempre teso a considerare secondario, o dipendente da altri fattori, il rapporto dialettico – talvolta addirittura conflittuale – tra Chiesa e beni materiali. Parte delle considerazioni rosminiane le ho ritrovate sullo sfondo dell’Accordo sottoscritto trent’anni fa. Alla base di esso infatti vi è la convinzione che il tema dell’amministrazione dei beni temporali rivesta una grande importanza in ottica ecclesiale, perché tali beni servono la comunione e la missione che la Chiesa svolge nel mondo. In quanto realtà anche sociale, la comunità ecclesiale vive nelle dinamiche proprie dell’esistenza umana, comprese le sue condizioni materiali. La gestione dei beni temporali deve esprimere e servire quella comunione nella quale è costituito l’unico popolo di Dio. Il Concilio afferma che nell’unica Chiesa le diverse parti sono tra loro unite da «vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e gli aiuti materiali». Anche questi ultimi sono oggetto della comunione, «poiché i membri del Popolo di Dio sono chiamati a condividere i beni». Da amministratori di beni donati dalla grazia di Dio attraverso la generosità dei fedeli siamo chiamati a condividerli con tutti, a servizio dei fratelli nell’unica comunione della Chiesa. Ho riferito, in apertura, del contributo offerto da Rosmini su questo argomento. Il grande filosofo e teologo italiano – che per primo e con sorprendente anticipo insiste sulla centralità e radicalità della riflessione sul tema del rapporto tra Chiesa e beni materiali – fa partire la sua accattivante riflessione da quanto si legge nel libro degli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (At 4,32-35). Nella Chiesa nascente, cioè, l’attività di raccolta e di distribuzione dei beni a favore dei bisognosi era interamente motivata dalla comunione che si andava sviluppando attorno agli apostoli e alla loro testimonianza. La condivisione diventava, in questa maniera, lo stile di vita della comunità cristiana come manifestazione visibile di quella unità profonda di spirito conseguita grazie all’unica fede e alla medesima carità. Sono tanti i documenti che hanno ripreso, approfondito ed attualizzato quanto descritto nel libro degli Atti. A cominciare dal decreto conciliare
Presbyterorum ordinis. I sacerdoti, afferma il testo conciliare, possono possedere e devono amministrare i beni ecclesiastici per «l’organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente a favore dei poveri». Motivazioni puntualmente riprese dal Codice di Diritto Canonico. In tutta questa materia, il Concilio e il Codice affermano chiaramente l’importanza del ruolo svolto dalle Conferenze episcopali, riconoscendone il molteplice e fecondo contributo affinché il senso di collegialità si realizzi concretamente. Si rileva infatti che «in specie ai nostri tempi, i vescovi spesso sono difficilmente in grado di svolgere in modo adeguato e con frutto il loro ministero, se non realizzano una cooperazione sempre più stretta e concorde con gli altri vescovi». Questa cooperazione esprime e concretizza l’«affetto collegiale » dei vescovi, che è sempre l’anima di ogni loro forma di collaborazione. D’altra parte, le molteplici sfide sociali, politiche e culturali dei nostri tempi esigono una «concordia di forze come frutto dello scambio di prudenza e di esperienza in seno alla Conferenza episcopale». Il Sinodo del 1967 volle che tale cooperazione in seno alle Conferenze episcopali fosse valorizzata anche e soprattutto in materia di beni temporali ecclesiastici. Il quinto dei criteri, che quel primo Sinodo consegnò alla Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto canonico, richiedeva che nella nuova normativa della Chiesa trovasse larga applicazione, soprattutto in materia di amministrazione di beni temporali, il principio di sussidiarietà, affinché potessero essere tenute nel debito conto le leggi delle nazioni e le situazioni sociali ed economiche proprie delle diverse parti del mondo. Coerentemente il Codice di Diritto canonico, entrato in vigore proprio trent’anni fa, lasciò alle decisioni normative delle Conferenze episcopali alcune determinazioni relative ai beni temporali; a seguito di ciò le delibere applicative della Cei diedero vita a una significativa legislazione complementare in materia. Le acquisizioni del magistero conciliare e le indicazioni codiciali trovano riscontro anche nella disciplina bilateralmente concordata con lo Stato italiano e segnatamente nel quadro di novità introdotte dall’Accordo concordatario del 18 febbraio 1984, in cui la materia degli enti e dei beni ecclesiastici nonché del sostentamento del clero occupa indubbiamente un posto di preminente rilievo. Questo rilievo, già riconosciuto nella sistemazione lateranense, non può sorprendere se si considera l’importanza che la materia assume nell’effettività dell’esperienza per il concreto dispiegarsi dei rapporti fra Stato e Chiesa. La comunità ecclesiale e la società civile si incontrano infatti non di rado proprio in occasione delle molteplici attività svolte dagli enti ecclesiastici, che operando a cavallo tra i due ordinamenti rappresentano una sorta di «ponte» gettato a congiungerli. Ne deriva l’opportunità di una regolamentazione bilateralmente concordata e di una prassi attuativa che, pur nel rispetto della distinzione degli ordini, possa riconoscere e valorizzare il ruolo e il contributo specifico degli enti degli enti della Chiesa nello Stato sociale, in ambiti decisivi come ad esempio quello dell’educazione, della sanità, dell’assistenza agli ultimi. Analoghe considerazioni possono valere (anche) per la materia del sostentamento del clero, tenuto conto in particolare del valore sociale delle molteplici attività svolte dai nostri sacerdoti e dalle ricadute che essa comporta sull’utilizzazione delle risorse devolute dai contribuenti mediante la scelta dell’8 per mille. Sulla base di tutte queste considerazioni e in questi ambiti specifici, con l’Accordo del 1984 ha preso avvio una nuova stagione di relazioni tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, che rispetto alla tradizionale prassi concordataria porta a valorizzare il ruolo e il contributo della Cei, alla quale significativamente viene riconosciuta la personalità giuridica
ex lege. In particolare, il ruolo della Conferenza italiana risulta riconosciuto nel nuovo Accordo concordatario, da un lato, mediante l’attribuzione di significative funzioni e speciali compiti in materia di attuazione pattizia. Dall’altro lato, mediante la previsione che «ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Cei» (art. 13). La previsione di nuovi livelli di trattative e di nuove forme di accordo prospetta ulteriori sviluppi del principio di bilateralità, ed esprime quello spirito di «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese », pur nella riconosciuta distinzione delle competenze (art. 1), che caratterizza la nuova legislazione concordataria e deve orientarne l’interpretazione e lo sviluppo. Essa inoltre consente una maggiore duttilità dello strumento pattizio e l’opportuna inclusione fra i protagonisti del dialogo tra Chiesa e Stato di quell’episcopato nazionale cui già il Concilio e il Codice di diritto canonico del 1983 avevano riconosciuto largo spazio. (...)L’esperienza della Cei nel corso dei primi trent’anni di operatività dell’Accordo è stata largamente positiva, sia nei confronti dello Stato e della società civile, sia nei confronti della comunità ecclesiale. Nel rispetto del principio di corretta collaborazione nella libertà, che come è stato osservato rappresenta «l’anima del nuovo Concordato» (Nicora), è stato assicurato uno svolgimento sostanzialmente coerente e costruttivo delle linee ispiratrici generali della riforma, e una traduzione efficace in concrete ed aggiornate disposizioni esecutive. La valorizzazione della Cei nel quadro del dialogo e della collaborazione tra Stato e Chiesa cattolica si è dimostrata una felice intuizione, e potrà portare un molteplice e fecondo contributo affinché si realizzi concretamente il senso di collegialità che deve sempre animare lo stile e l’azione delle nostre Chiese. In una società come quella italiana che, senza negare la diversità delle culture e delle situazioni, ricerca un’unità più dinamica e indirizzi convergenti di soluzione per i grandi problemi, la Conferenza episcopale «si propone come figura concreta dell’unità della Chiesa, che concorre, a suo modo, a far crescere quella del popolo italiano, nel rispetto delle legittime diversità e autonomie».