martedì 2 marzo 2021
Uno studio di Anna Wiener, fra economia ed etica, porta a chiedersi quanto sia sostenibile «un tech che non è progresso ma soltanto business»
Lo skyline di San Jose

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Eric Salobir, un domenicano studioso delle nuove tecnologie, ha raccontato che nella Silicon Valley i guru dell’hi tech invitano i lama del Tibet per incontri di carattere spirituale. Segnale, affermava questo frate consultore anche del Vaticano per i nuovi media, che anche nella patria del web le domande di senso non sono straniere né possono essere completamente esclusi gli interrogativi più radicali laddove ogni cosa viene smaterializzata e tutto diventa (tecnologicamente) possibile. Una sensazione simile l’ha provata, mutatis mutandi, Anna Wiener, una giovane cultrice della letteratura che si è trasformata in un’esperta di dati digitali e si è insediata, come migliaia di giovani nella nuova frontiera del sogno a stelle e strisce, San Francisco, la città-emblema della Silicon Valley dove hanno sede i grandi gruppi della Rete. Ma Anna Wiener, oggi giornalista del 'New Yorker', espressione tipica del mondo millennial yankee (tutti green ed eticamente liquidi), nel suo memoir La valle oscura, da poco edito da Adelphi, non lascia da parte la grande domanda: perché? Perché i grandi amministratori delegati delle start up che assommano migliaia di milioni di dollari costruiscono un mondo digitale in mano ai dati (I am data driven, 'Io sono guidato dai dati' è il mantra che campeggia su tshirt aziendali dove lavora Wiener)?

«Scopo ultimo dell’idea: un mondo migliorato dalle aziende migliorate dai dati». Ma anche un mondo «libero dal peso delle decisioni, dalle inutili frizioni del comportamento umano, dove ogni cosa poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata e controllata». Quindi, bye bye libertà. La Silicon Valley, secondo Wiener, sembra attraversata da una sola preoccupazione: se qualcosa si può pensare, lo si può fare. Il punto è nel come. Ma la domanda sul perché sembra costantemente elusa. «La battuta ricorrente era che l’industria tecnologica stava semplicemente reinventando beni e servizi che esistevano da un pezzo. Era una battuta sgradita a molti imprenditori e investitori, che invece avrebbero dovuto essere grati di quel diversivo, poiché sviava la conversazione da questioni strutturali - per esempio, dal perché certe cose, come il trasporto pubblico, il settore degli alimenti o lo sviluppo urbano, avevano dei problemi'. Insomma, qualcosa non torna. Del resto qui e là la descrizione della vita quotidiana degli startupper è davvero a metà tra il grottesco e il terrificante: «Nuove aziende vendevano nootropi farmaci non regolamentati che incrementavano le funzioni cognitive e promettevano di sbloccare un livello superiore di pensiero - a coloro che perseguivano le massime prestazioni».

La stessa Wiener si rendeva conto che qualcosa non torna quando lavorava in un’azienda che elaborava un prodotto digitale per accumulare i dati degli utenti. Perché lo si faceva? La domanda non veniva neppure posta: «Non ci consideravamo parte dell’economia della sorveglianza. Non riflettevamo sul nostro ruolo, non pensavamo al fatto che stavamo favorendo e normalizzando la creazione di banche dati sul comportamento umano, gestite da privati e non soggette ad alcuna regolamentazione». Fa capolino, nella testa della giovane data driven, la domanda etica, interrogativo che se ne porta dietro uno più prettamente spirituale (il titolo rimanda per assonanza al celebre Salmo 23): «Non ero contraria alla ricerca della verità. A quanto ne capivo, la razionalità offriva fondamentalmente sistemi di riferimento esistenziali molto simili all’autoaiuto. Il che aveva senso: le istituzioni religiose si stavano sgretolando, le grandi società esigevano una dedizione quasi spirituale, ci si sentiva sopraffatti dalle informazioni e i rapporti sociali erano stati demandati a internet - tutti erano in ricerca di qualcosa».

Sicuramente Anna Wiener non ha letto Sant’Ignazio di Loyola. Ma la disanima che il santo fece sul 'magis', la ricerca del di più da parte dell’uomo, come traccia dell’inquietudine di origine divina, e quanto scrive la giovane di San Francisco sembrano andare nella medesima direzione: «Il tech non era progresso. Era solo business. Fu anche, forse, la mia empatia verso i giovani imprenditori della Silicon Valley. […] Tutti quei ragazzi svegli, paranoici e inclini agli estremi […] Supponevo che i loro veri desideri fossero simili ai miei: sapevo che costruire sistemi, e farli funzionare, rappresentava di per sé una soddisfazione ma supponevo che tutti desiderassero di più». Ebbene, sì, accade anche tra i guru dell’hi-tech e nel tempio del web.

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