Un grande studioso dell’ebraismo come André Chouraqui era stato lapidario. Nella sua sintetica
Storia del giudaismo (Gribaudi, 2002) aveva sottolineato il «ruolo determinante» che i farisei avevano rivestito non solo «nella vita religiosa» di Israele, ma anche in quella «dell’umanità». Addirittura? Addirittura, sì. Inferno e Paradiso, risurrezione dei morti e ruolo degli angeli, per non parlare dell’azione silenziosa della Provvidenza nelle vicende terrestri: sono tutti elementi che i cosiddetti
perushim (i «separati», così la traduzione letterale del termine) introducono per primi nella cultura religiosa dell’ebraismo. Un insieme di credenze che, per paradosso, accorcia le distanze tra fariseismo e cristianesimo, nonostante i ripetuti attacchi polemici che il Nuovo Testamento riserva all’ipocrisia dei «perfetti». Il rispetto assoluto di ogni minima norma morale e igienica, del resto, è un tratto irrinunciabile della spiritualità dei farisei. Non per questo, però, l’intera esperienza del movimento può essere ridotta a un vacuo esercizio di formalismo. «Il fariseismo non è questo. La sua essenza è diversa. In esso è stato attuato il grandioso tentativo di fare della religione la religione della vita, della vita del singolo e di tutti, in modo che la religione camminasse di pari passo non solo con l’uomo, ma con la comunità, con lo Stato». Questo sosteneva nel 1934 Leo Baeck al termine del suo
I Farisei: un capitolo di storia ebraica, apparso originariamente nel 1927 e ora proposto da Giuntina (pagine 72, euro 10) nella traduzione di Paola Buscaglione Candela e con una una prefazione del biblista Piero Stefani, di cui anticipiamo un brano qui a fianco. Un piccolo libro di estremo interesse, sia per il tema che affronta, sia per la figura dell’autore, ancora relativamente poco noto nel nostro Paese, dove pure sono disponibili da tempo alcuni suoi testi fondamentali, quali
Il Vangelo: un documento ebraico (Giuntina, 2004) e, più che altro,
L’essenza dell’ebraismo (Marietti, 1988). Nel 1905 fu proprio quest’ultimo saggio a fare del giovane
rabbi – nato nel 1873, Baeck morì nel 1956 – una delle personalità di spicco nell’ebraismo della sua epoca. Si trattava, in sostanza, di una risposta al celebre
L’essenza del cristianesimo di Adolf von Harnack, rispetto al quale Baeck rivendicava il carattere “giudaico” della predicazione di Gesù e, nello stesso tempo, attribuiva a Paolo l’opera di sistemazione teologica della nuova religione. E Paolo, com’è noto, era «fariseo, figlio di farisei».Fatalmente datato dal punto di vista della ricerca storica, il lavoro di Baeck segna in ogni caso un punto fermo nell’interpretazione del fenomeno. I farisei si affermano durante il regno degli Asmonei, in particolare sotto Giovanni Ircano (134-104 a.C.), come comunità di «santi» in cui l’elezione di Israele assume una forma innovativa. Al culto del sacrificio, amministrato dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme, si affianca il culto della Parola che i sapienti dispensano nelle sinagoghe, luoghi “separati” – ancora una volta – che garantiscono la sopravvivenza dell’ebraismo anche nel pieno della diaspora. L’obbedienza alle regole è fondamentale perché mette il riparo il credente dalla contaminazione con i gentili, ma ad assumere una centralità altrimenti sconosciuta è la lettura del Libro e la sua interpretazione secondo tradizione. Tutto questo, osserva Baeck, non è privo di implicazioni politiche: i farisei si qualificano come «partito del popolo in contrapposizione alla condizione privilegiata e alla nobiltà dei sacerdoti». Del resto anche lo scrittore Chaim Potok nella sua
Storia degli ebrei (edita in Italia da Garzanti) invita a dimenticare la rappresentazione dei farisei «come vecchi cortesi dalle fluenti barbe bianche». Al contrario, spiega, si tratta di «seguaci appassionati degli insegnamenti degli scribi, in molti casi abili con la spada e la lancia così come con i testi della legge, pronti a uccidere per amore del loro Dio». Nella ricostruzione di Baeck, alle soglie dell’era cristiana il movimento farisaico subisce una polarizzazione che porta, da un lato, al costituirsi della fazione combattente degli zeloti e, sull’altro versante, all’esperienza contemplativa degli esseni.Secondo Baeck, dunque, i farisei della diaspora costituiscono «il primo esempio di una comunità fondata all’esterno del proprio paese, in nome della religione». Separati, com’è nel loro destino, ma nondimeno partecipi della chiamata universale testimoniata dai profeti di Israele. La visione escatologica e la relativa letteratura apocalittica rappresentano una componente irrinunciabile del pensiero farisaico che, nel momento stesso in cui sancisce il principio di elezione, riconosce la dignità originaria della condizione umana. È il delinearsi della prospettiva messianica, in una dimensione dell’attesa che giustifica – almeno in parte – la severità del racconto evangelico nei confronti del legalismo di cui i farisei sono depositari. «Quel grandioso tentativo– annota da ultimo Baeck – doveva preparare il terreno per il regno di Dio. Il nome appartiene al passato, ma il significato del comandamento contenuto in quel nome è rimasto realtà ideale».