Non riuscì mai a diventare italiano, Giovanni Segantini. Non soltanto per la cittadinanza, ma anzitutto per il modo di sentire le cose. Eppure ha vissuto tre lustri, dal 1865 al 1881, a Milano, da dove si sposterò in Brianza, poi nel cantone svizzero dei Grigioni e, infine, in Engadina. In quella zona, a Sils-Maria, Nietzsche aveva trovato un luogo di pace proprio verso il 1881, dove l’aria alpina, assolata e secca, gli dava sollievo all’emicrania che lo tormentava costantemente.
L’Engadina fu una specie di immaginario altopiano dello spirito per tanti intellettuali, dove le piccole e grandi nevrosi trovavano un balsamo efficace. Scrittori, musicisti e artisti cercavano lì non solo pace, ma anche il mondo rarefatto immerso in una luce totale da cui ricevere ispirazione. Nietzsche confessò di aver avuto in quella terra l’intuizione dell’“eterno ritorno” imbattendosi in un masso erratico. Fu qualcosa di più di una intuizione, fu, come disse il filosofo, una rivelazione: «Nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti». Una molla che scattò anche per Segantini.
Percorrendo le sale della mostra che la più grande studiosa di Segantini, Annie-Paule Quinsac, ha ordinato a Palazzo Reale, avverto come un senso di claustrofobia, una pressione alle tempie; qualcosa che, lì per lì, imputo alla folla di nobildonne, nonne, critici e professori, venuta alla presentazione riservata alla stampa.
Quando la ressa si allenta e nelle stanze si riescono a vedere i quadri con quel minimo di spazio e di concentrazione che richiede una mostra come questa, mi rendo conto che la mia sensazione non cambia. Ho voglia di uscire, sento che le gambe aumentano il ritmo e quasi si mettono a correre. Segantini non mi fa pensare a un uomo felice, uno che ha trovato la sua strada. Forse in Engadina, negli ultimi anni della sua non lunga vita, cercava quella luce totale che cancella le ombre che sembrano sempre velargli gli occhi. Come annota Quinsac nella biografia che, con scelta anticonformista, apre il catalogo edito da Skira, la perdita del padre quando aveva sette anni, una breve permanenza nel riformatorio, una costante irrequietezza caratteriale e – aggiungo io – la difficoltà a fermarsi in un luogo, dentro confini che sono anche regole di vita comune, ebbero un peso sulla sua pittura.
Eppure, non penso che sia solo una insofferenza, la ruvida pasta del montanaro, a parlare nella sua pittura. Un demone meridiano, forse simile a quello di Nietzsche (che morirà nel 1900, un anno dopo Segantini), lo agita fin da ragazzo quando, sotto la vigile protezione di Vittore Grubicy, dà prova del suo grande talento. Il salto di qualità comincia a vedersi, per esempio, nell’evoluzione figurativa dei suoi autoritratti: verso i vent’anni, nel 1879, si mostra ancora nei panni di un giovane come tanti, col papillon un po’ stropicciato che gli chiude il colletto della camicia; ma tre anni dopo è già diventato una specie di demone della notte che guarda verso di noi come se dovesse piegare la nostra volontà.
Passano gli anni e Segantini si vede ormai come una specie di profeta, folta capigliatura, barba che s’allunga come quella di un monaco orientale, sullo sfondo la silhouette grigia delle montagne. C’è qualcosa di tenebroso nella sostanza del suo disegno, qualcosa che carbonchia nella sua pittura, come il nero sulla punta delle piccole dita della figlia nel quadro del 1881 che ritrae la sua famiglia. Un fantasma che divora la luce; ed è come se raschiasse con le unghie la superficie di un intonaco fino a rendere l’immagine – vedi il Ritratto di giovane signora – un’apparizione che si sfarina dentro la materia pittorica.
Nel 1884-86 dipinge l’impressionante Ritratto d’uomo sul letto di morte, che sembra debitore alla pittura di Hodler: il contrasto fra la tesa pasta del bianco tirato con pennellate brevi e dense, e il rosso vivo con cui rende l’interno delle narici dell’uomo, unico segno di vita che ancora c’è in lui, è inquietante, fa pensare a un turbamento profondo, con una latenza sadica che tratta quel volto come una “natura morta”. Negli anni Novanta comincia la lunga serie di opere dove, sia pure con alterne investiture simboliche (erano anni in cui si parlava molto in Europa di Medioevo e Segantini, nel 1897, voleva affittare un castello in Engadina per viverci e attorno al quale ricreare un villaggio medioevale), la materia pittorica comincia a disporsi meticolosamente con quella tessitura a bozzolo filamentoso che diventerà la cifra espressiva di Segantini.
Più guardavo queste opere – dal ritratto della vecchia signora Oriani, al Riposo all’ombra, al celberrimo Mezzogiorno sulle Alpi, fino al grande olio che raffigura la primavera, ma con una sosta anche nei gorghi più simbolisti dell’Angelo della vita –, e più, ecco, mi domandavo se nella meticolosa, ossessiva lavorazione di quella pasta pittorica non si palesi un’ossessione, una specie di nevrosi, un germe di lucida follia. Il sogno di imprigionare la luce, di negare l’ombra, portò Segantini a un mutamento di stile quasi parallelo a quello di Van Gogh: dai colori scuri, plumbei, terragni degli inizi, all’esplosione del colore puro.
In Segantini questo si traduce in una stratificazione materica, con sottili increspature, che sembra una sontuosa corteccia, la scorza luminosa attraverso cui l’invisibile si rende guardabile. In effetti, mentre la sua pittura guadagna questo status , la figura umana, immersa nell’ambiente naturale, diventa quasi una interferenza della luce, che condensa in sé l’energia luminosa e si fonde col paesaggio, come se non ci fosse più alcuna separazione fra uomo e mondo. Ma questo è il “buco nero” di Segantini, l’abisso dell’ombra; e ciò che ci appare è, alla fine, il bozzolo incandescente che Segantini gli ha dipanato attorno per cacciare dalla sua mente il fantasma della morte.
Milano Palazzo Reale
Segantini
Fino al 18 gennaio 2015