Per la casa editrice umbra Aguaplano, arriva ora in libreria un puntuale e ponderoso volume,
Anni di piombo, penne di latta, significativamente sottotitolato
(1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni complicati), laddove i due estremi cronologici del cosiddetto «quindicennio lungo» sono simbolicamente rappresentati dall’uscita del libro di Calvino
La giornata di uno scrutatore (un anno, dunque e finalmente, non più rubricato sotto il segno del sopravvalutato Gruppo ’63) e dalla strage della stazione di Bologna. L’ha scritto Roberto Contu, dottore di ricerca in Italianistica e Letterature Comparate non ancora quarantenne (la nostra "meglio gioventù") il quale, come ormai i più fortunati della sua generazione, precluso a ogni futuro universitario, almeno insegna nelle scuole secondarie. Si capisce subito che non abbiamo a che fare con un capitolo di storia letteraria, ma con una ricerca che riguarda, più in generale, la vicenda italiana della cultura e degli intellettuali, con una disposizione ad alta temperatura civile, se non politica. Scrive Contu nella premessa: «Per quanto riguarda il materiale analizzato, la scelta è stata quella di privilegiare la produzione d’occasione su quella letteraria (con significative eccezioni – vedi
Petrolio,
Il contesto o
La vita interiore». Ricostruzione, insomma, di tutte le polemiche e grande attenzione alla pubblicistica: ma con pochi romanzi esaminati, e cioè quelli più dichiaratamente invischiati con l’autobiografia della nazione. Di qui la conseguenza di occuparsi soprattutto dei protagonisti del dibattito culturale, gli scrittori-intellettuali appunto, in qualche modo assoggettati al mito dell’impegno: Calvino, Pasolini, Fortini, Moravia, Sciascia, Eco, su tutti gli altri.La tesi di fondo è che in questi diciassette anni si produca «una crisi sistemica del mondo intellettuale italiano» irreversibile: nel passaggio da un discorso letterario, che consapevolmente partecipa «alla costruzione di una società migliore», alla constatazione d’un deficit conoscitivo totale, di «un disorientamento generalizzato», entro un contesto da cui «emersero impreparazione, senso di spiazzamento, impossibilità di risposte chiare, a volte imbarazzante mancanza di coraggio». Tesi articolata in tre parti, corrispondenti a tre sottoscansioni cronologiche:
La caduta degli dèi (i secondi Sessanta);
All’ombra del corsaro (da piazza Fontana all’idroscalo di Ostia);
Dentro il buio (fino agli anni Ottanta). Nella prima, a dettare lo spartito è, in largo anticipo, Calvino: il quale, se nel ’55 (
Il midollo del leone), ribadiva la sua fede nella coscienza, la volontà e il giudizio, nel ’59 (
Il mare dell’oggettività) si trovava già a constatare che quei valori erano stati sommersi «dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste». Nella seconda, invece, è Pasolini a dominare, diventando, con la sua radicale disorganicità a partiti e movimenti, la cartina di tornasole per valutare l’esperienza di tutti gli altri intellettuali. Nella terza, invece, è lo Sciascia dell’
Affaire Moro a catalizzare un processo di disillusione radicale e di divorzio tra intellettuali e società civile.Non sono qui interessato a discutere e soppesare i risultati della ricerca di Contu, che pure meritano la massima considerazione. Quel che mi preme è una riflessione sugli eventuali paradigmi storiografici cui la ricostruzione d’un decennio così complicato e ambiguo, come gli anni Settanta, costringe. Un decennio di miseria e violenza, ma anche di grandissima creatività e prolifico di capolavori. Ecco il punto: quando si passa dalla cronaca civile e ideologica ai valori estetici che innervano quegli anni, l’ottimo lavoro di Contu non ci soccorre più. Di qui la domanda: si può fare storia della letteratura nella rimozione totale dei valori propriamente letterari? George Steiner, chiamato a indicare le eccellenze del secondo Novecento italiano, non ebbe dubbi e fece due nomi:
Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo e
Il giorno del giudizio (1977) di Salvatore Satta, che qui non sono mai citati, mentre troviamo Guido Giannettini e Pinochet. Non importa se condivida o meno il giudizio di Steiner, ma mi chiedo: può esistere una storia della letteratura italiana degli anni Settanta, escludendo una discussione di questi due libri decisivi, quand’anche per demolirli? Prendiamo poi un libro, anche per me cruciale, come
L’Affaire Moro, di cui Contu dispiega tutto il potenziale etico, civile e politico. Non credo che bisogna essere dei fanatici d’una continiana storia della letteratura come storia delle istituzioni linguistiche, per rendersi conto che il mistero di quel libro sia oggi tutto di natura formale e epistemologica, fino al punto da poterlo leggere come un apologo sulla critica letteraria. E lo stesso vale per
Petrolio. Ogni vera storia letteraria degli anni Settanta, ne sono convinto, non può che muovere da queste domande.