Sarà in libreria martedì 14 ottobre il volume «I sommersi e i salvati di Bergoglio» (edizioni Piemme, pagine 266, euro 16.50) del giornalista di “Avvenire” Nello Scavo. Si tratta di un’indagine sull’impegno dell’allora gesuita e poi cardinale per salvare tanti dissidenti dalla dittatura argentina e non solo, come risulta dal brano che qui anticipiamo e che riguarda uno dei primi interventi diretti di Bergoglio, relativo all’Uruguay, dove i militari avevano preso il potere nel 1973 e per oltre tre anni governarono con pugno di ferro, imprigionando centinaia di oppositori, molti dei quali giustiziati facendone sparire per sempre i resti.
Come già raccontato in un precedente volume di Scavo («La lista di Bergoglio», Emi 2013), il futuro Pontefice ha contribuito a proteggere e a salvare molte vite umane, sia di religiosi sia di laici, sottraendoli ai torturatori, proteggendoli e favorendone l’espatrio.
L’inchiesta di Scavo vuole anche controbattere con i fatti alle accuse mosse subito dopo l’elezione contro papa Francesco, per cui nell’Argentina sotto dittatura avrebbe appoggiato o fiancheggiato la repressione dei militari. Ricorrendo a svariate testimonianze di prima mano, il libro rivela una realtà del tutto differente.
Il Venerdi Santo del 1975 padre Carlos Meharu stava celebrando in una chiesa di Montevideo i riti del triduo pasquale, rievocando la Passione e la Crocifissione. D’improvviso irruppero i militari delle Forze Congiunte. Lo trascinarono via con altri cinque gesuiti e un gruppo di trentatré laici, alcuni dei quali erano minorenni. Meharu era il superiore provinciale, in altre parole il capo dei gesuiti dell’Uruguay. Mai, prima di quel giorno, i militari si erano spinti a tanto.Padre Jorge Scuro, uno dei sacerdoti che lavoravano con Meharu, apprese della retata solo il giorno successivo. Non sapeva cosa fare per salvare i prigionieri. Finché non si ritrovò a Buenos Aires, la domenica di Pasqua, chiuso in una cabina telefonica insieme al capo dei gesuiti argentini, Jorge Mario Bergoglio. (…)Alle 5.20 del mattino di Pasqua salì su un aereo diretto a Buenos Aires. In 45 minuti si atterrava dall’altra parte del Rio de la Plata. «Andai a cercare il mio amico Jorge Mario Bergoglio. Ero sicuro che mi avrebbe aiutato». Pur trattandosi di una domenica che più di altre impegna i sacerdoti, padre Bergoglio gli diede appuntamento in un bar della zona di Corrientes, non lontano dall’Università gesuita del Salvador. Arrivò all’ora stabilita.«Cosa vuoi che faccia»?, domandò il provinciale. «Devi farmi parlare con Pedro Arrupe, lui è il padre generale, deve ascoltare dalla mia voce cosa stanno facendo alla Compagnia». Non solo, occorreva discutere con Arrupe di come intervenire con un’azione rapida e a colpo sicuro. «Ok, lo farò», disse padre Jorge. «Aspettami all’ingresso dell’Università del Salvador, ho bisogno di trovare una macchina».Che uno come il trentottenne capo dei gesuiti argentini accettasse di interrompere i suoi impegni domenicali per affrontare un’emergenza fa parte dello stile Bergoglio. Ma l’idea di scomodare il "papa nero", per di più senza preavviso, poteva davvero sembrare quasi folle. Poco dopo, Bergoglio ricomparve a bordo di un’utilitaria. Padre Scuro non fece in tempo a sedersi sul sedile del passeggero che padre Jorge Mario gli intimò di rimuovere il colletto bianco da prete e aprire la camicia come un normalissimo giovanotto accaldato. «Nessuno ci deve riconoscere».Come al solito, Bergoglio cominciò a puntare il muso dell’auto prima in una direzione e poi in quella opposta, apparentemente dirigendosi verso non si sa dove. L’avessero pedinato, avrebbe stremato gli agenti in borghese con le sue traiettorie senza senso. Di certo li avrebbe seminati. Non era solo perizia. Cercava un posto telefonico con i vetri oscurati. Non ne erano rimasti molti. L’auto accostò nei pressi di un telefono pubblico ad Avellaneda, nella zona sudorientale dell’area del Gran Buenos Aires, a 15 chilometri dal luogo da cui erano partiti. «Avevo il cuore in gola. Sembrava che l’anima stesse per lasciare il mio corpo, tanto ero impaurito per quella situazione», racconta Scuro.Durante il percorso parlarono della situazione in Uruguay e di cosa si sarebbe dovuto fare per tirar fuori i prigionieri. Il provinciale argentino fece domande precise, ma si capiva che aveva dimestichezza con quel genere di circostanze. Infilò le monete nella gettoniera e compose un numero che conosceva a memoria. Prima il prefisso italiano, poi una sequenza che cominciava per 06689, quella che precede le utenze della Città del Vaticano.Parlò con riguardo ed estrema confidenza. Salutò in italiano, poi proseguì in spagnolo. Non ci mise molto a spiegare all’interlocutore che la situazione giustificava quell’urgenza. A rispondergli era Pedro Arrupe in persona, il "papa nero", come ancora adesso viene definito il "preposito generale" della Compagnia di Gesù.(…)Con il suo capo s’intendeva senza necessità di curialismi. Jorge Scuro rimase colpito da tanta confidenza tra i due. «Rivedo Jorge Mario che si spiega brevemente al telefono, suggerisce al preposito generale di fare quello che gli avrei chiesto perché la situazione non aveva scampo. Poi mi passa la cornetta». Bergoglio e Scuro ne avevano parlato prima di fare quella telefonata. Erano d’accordo su cosa fosse meglio suggerire ad Arrupe, ben sapendo che il padre generale ci avrebbe poi messo del suo. «Abbiamo bisogno di trasmettere telegrammi della Santa Sede alle autorità di Montevideo», disse Scuro. «Un momento, prendo una penna», rispose Arrupe che si annotò i nomi del presidente della Repubblica, del ministro dell’Interno, dell’assistente segretario del ministro della Difesa, del comandante in capo delle forze armate e del nunzio apostolico. «Ringraziai Jorge e la sera tardi tornai in Uruguay con l’ultimo volo. La mattina dopo ero in seminario e mi comportai come se niente fosse accaduto. Nessuno doveva sapere dov’ero stato il giorno prima e con chi avevo parlato. Prima delle sette e mezza ricevetti una telefonata. Mi invitavano ad andare in questura. Lì un agente mi disse con un certo disappunto che il governo si era riunito d’urgenza perché dal Vaticano erano arrivati dei telegrammi». Entro mezzogiorno i prigionieri furono tutti liberati. (…) All’inizio di febbraio 2014 il salesiano Daniel Sturla ricevette un messaggio da Roma. Papa Francesco lo nominava arcivescovo di Montevideo. Non sapremo mai cosa i due si siano detti di preciso. Ma Scuro è certo che entrambi avranno ricordato la Settimana Santa del 1975. «Nel gruppo di laici sequestrati dai militari insieme ai gesuiti c’era lui, Daniel Sturla. Era poco più che un ragazzino, ma lo imprigionarono lo stesso. Con l’intervento decisivo di Bergoglio su Arrupe, Sturla e gli altri non solo furono liberati, ma non vennero mai più toccati dai militari». La storia ha avuto la sua rivincita, se quei militari hanno dovuto darsela a gambe e il piccolo Daniel è ora l’arcivescovo della capitale.