«La Commissione provinciale di Forlì per l’applicazione di sanzioni a carico di fascisti politicamente pericolosi invita il Sig. Bedeschi Giulio di Edoardo quale fascista politicamente pericoloso a comparire dinanzi alla suddetta Commissione alla seduta del giorno 24 aprile 1946 per essere interrogato nel procedimento a suo carico.... Copia di questo invito è stata notificata a Bedeschi Giulio ora di residenza, domicilio e dimora sconosciuti tramite deposito nella Casa comunale di Forlì». Ma Giulio Bedeschi «federale repubblichino di Forlì, fuggito al Nord, latitante» non si presenterà e sarà privato dei «diritti elettorali attivi passivi per anni dieci»: la sospensione più alta mai decretata da quella Commissione provinciale. Giulio Bedeschi: sì, l’autore celebrato di Centomila gavette di ghiaccio, Il peso dello zaino, La mia erba è sul Don, Nikolajewka: c’ero anch’io e tantissimi altri volumi di testimonianze dell’Italia in guerra, che dopo l’8 settembre 1943 era stato – come ormai noto – non solo membro del Partito Fascista Repubblicano, ma anche Federale di Forlì e comandante della Brigata Nera «Capanni», facente capo alla stessa città romagnola e poi sfollata nel vicentino; la zona di cui il medico-scrittore era originario. La storia (sempre taciuta dal protagonista) l’abbiamo raccontata in queste pagine il 24 aprile e poi il 5 settembre 2012; ma proprio l’inchiesta di Avvenire ha fatto emergere nuove carte relative all’attività repubblichina di Bedeschi, tra cui i sopra riportati verbali della Commissione di epurazione forlivese che «nell’adesione volontaria data al fascio repubblicano» dal futuro scrittore ravvisò un «fatto di particolare gravità, eminentemente contrario alle norme della rettitudine e della probità politica», al punto da decretare «la pericolosità politica dell’incolpato». La ricerca si deve a Renato Bondi, un appassionato riminese di storia locale, che ha raccolto nei fondi dell’Archivio di Stato una notevole mole di documenti riguardanti anche l’attività «fascista» di Bedeschi, in genere lettere e rapporti legati al suo ruolo tra 1944 e 1945 di gerarca e comandante militare di una delle Brigate Nere più numerose d’Italia, forte di circa 800 uomini.
Che cosa se ne ricava? Anzitutto, che il futuro scrittore era un attivo e pratico organizzatore; per esempio, nell’estate 1944 nell’imminenza dell’arrivo del fronte in Romagna (Forlì sarà liberata il 9 novembre), si occupa del trasferimento delle famiglie dei fascisti più a Nord, recandosi anche personalmente a sollecitare mezzi di trasporto presso i dirigenti di Salò. In un’altra lettera il comandante Bedeschi chiede di accertarsi «se i materiali trasferiti e in via di trasferimento in Alta Italia sono di proprietà del Partito e, in caso negativo, se risultano regolarmente requisiti». Ancora: cerca di opporsi al saccheggio di scarpe che militari tedeschi e gente del popolo fanno in un calzaturificio forlivese, e anzi ne recupera tre sacchi. Fa sorvegliare la trebbiatura per evitare l’imboscamento del grano. Insomma, si occupa in genere di ordine pubblico, come in effetti è prescritto in un regolamento per le camicie nere del giugno 1944: «I compiti sono quelli del combattimento, per l’ordine pubblico, per l’ordine rivoluzionario, per la lotta antiribellistica... Niente requisizioni, arresti ed altri compiti di polizia nello stretto senso della parola... Nelle azioni antiribelli, le squadre non fanno prigionieri». Ma Bedeschi si è reso responsabile anche di atti cruenti, che hanno oltrepassato i suoi obblighi di militare in tempo di guerra? Impossibile stabilirlo, allo stato della documentazione. Di certo la sua Brigata Nera effettuava «frequentemente rastrellamenti nella zona di Forlì», come testimonia un ex milite nella deposizione rilasciata ai membri del Cln e ai carabinieri che l’interrogavano, verbale in cui si citano i raid di un «camioncino» con una dozzina di elementi fascisti anche violenti, uno dei quali sicuramente faceva parte della scorta personale di Bedeschi. Un secondo ex milite rammenta un rastrellamento effettuato più tardi in Veneto, nella zona di Thiene, durante il quale vennero fermate 8 persone «ma ignoro la fine che fecero i prigionieri». In un’altra deposizione un partigiano comunista narra delle botte subìte dopo l’arresto a Forlì, per indurlo a confessare – è citato un capitano particolarmente accanito in tale compito –, finché «dopo 9 giorni di alternativa tra la vita e la morte fummo chiamati alle ore 22 alla presenza del federale Bedeschi il quale ci chiese di indossare la camicia nera (consiglio che poi il testimone effettivamente seguì, salvando la pelle, ndr) oppure saremmo stati fucilati al mattino, causa l’uccisione di un fascista della brigata nera».Altre attività documentate di Bedeschi sono quelle propagandistiche: i testimoni citano suoi discorsi in occasioni ufficiali, un notabile fascista narra della sua idea di creare un giornalino, «un foglietto per i militi della brigata» (tentativo naufragato dopo il primo numero «perché non piacque il soggetto piuttosto elevato ad intonazione generica»), e c’è anche qualche prova scritta dei suoi esercizi giornalistici pro regime. Come per esempio quest’esortazione dell’agosto 1944: «Mentre le nostre divisioni raggiungono le linee e il Maresciallo Graziani è alla testa della prima armata italo-tedesca per la riconquista dell’onore attraverso il combattimento, con la formazione delle Brigate Nere il Fascismo ingaggia la decisiva battaglia per la Vittoria. Brigata Nera "Capanni": in piedi!». Un’ultima notizia, ma preziosa per la biografia dello scrittore, si ricava infine dalla testimonianza di un uomo della scorta: il 25 aprile 1945 Bedeschi era a Schio e il 26 si trasferì a Vicenza, dove «ci sciogliemmo». La precisazione è l’ultima traccia nota del futuro scrittore, che riemerge 4 anni più tardi a Ragusa, in Sicilia, dove fece il medico ospedaliero, e quindi nel 1951 in Polesine.Non sappiamo ancora però come l’ex gerarca sia potuto sfuggire alle epurazioni e alle vendette dell’immediata post-Liberazione, considerato pure che ben 25 militi della sua stessa Brigata Nera nel maggio 1945 vennero «prelevati» dalle prigioni di Thiene e giustiziati sommariamente da un commando partigiano forlivese. Forse disponeva dei documenti di identità falsi che il gerarca Pavolini si era premurato di far avere agli ufficiali di Salò. Di certo, comunque, anche grazie a questi nuovi dati si capisce meglio come mai il manoscritto delle Centomila gavette abbia collezionato ben 16 rifiuti presso diversi editori, prima di essere stampato da Mursia nel 1963: forse ad opporsi non fu tanto la censura «comunista», come si è spesso ritenuto, bensì la memoria ancora viva del passato dell’autore durante la Repubblica di Salò.