giovedì 15 ottobre 2015
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Un tempo c’era l’arte, e basta. Non servivano aggettivi per definire un dipinto con un Crocifisso o una Vergine col bambino. Fino a quando si è sentita la necessità di specificare: “arte sacra”. Un binomio nato, spiega Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, «quando l’arte ha cominciato a camminare sulle sue gambe e la Chiesa ha cercato di inseguirla». Un segno tangibile del divorzio, come spesso si è scritto, tra la fede e la ricerca artistica. E mentre gli artisti inseguivano piste che avrebbero aperto alle molteplici esperienze della modernità, la committenza ecclesiale – salvo casi, anche in tempi recenti, importanti e illuminanti, ma che non sono riusciti a diventare sistema – si rifugiava in immagini stucchevoli e oleografiche. Léon Bloy inventò un termine per definirle: “style sulpicien”. «Per lungo tempo con arte sacra – dice Paolucci – si è identificata la produzione devozionale. E anche oggi la gente comune quando sente parlare di arte sacra si immagina le statue della Madonna di Lourdes o di padre Pio». Gli artisti però non hanno abbandonato l’immagine religiosa, che attraversa come un fiume carsico la storia dell’arte dell’ultimo secolo e mezzo. Lo evidenziano a Firenze le due mostre organizzate in occasione del quinto Convegno ecclesiale: Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana a Palazzo Strozzi, dedicata agli anni che vanno dal 1850 al 1950, e Si fece carne. L’arte contemporanea e il sacro, nella basilica di San Lorenzo, che prende le mosse da Yves Klein per concentrarsi sugli artisti del presente. Ma il nodo cruciale resta, al fondo, quel termine: “sacro”. Arte sacra, religiosa, cristiana, liturgica. L’ambito lessicale è un campo minato, professor Paolucci… «Ma Paolo VI in questo è stato chiarificatore. Montini ha detto che l’arte è sacra in quanto afflato dell’uomo verso l’altrove. Solo partendo da questo azzardo semantico si può recuperare un arte sacra che, nel senso di un tempo, comunichi i valori promossi dalla Chiesa ma nei termini artistici della contemporaneità. Montini non si è limitato a formulare questo principio con il celebre discorso nella cappella Sistina del 1964 ma lo ha dimostrato nella pratica, fondando il dipartimento dei Musei Vaticani dedicato all’arte moderna e contemporanea, nel 1973. Discendono di lì gli interventi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sull’argomento». Il Concilio e il magistero dei pontefici hanno fornito l’inquadramento teologico ed ecclesiale per superare la storica impasse. Ma sul fronte delle iniziative quale è la situazione? Quali sono i nodi problematici? «È avvenuta un’attenzione rinnovata. Abbiamo registrato un riavvicinamento da parte di artisti. Abbiamo cercato di favorire in più modi questo moto. Ultima in ordine di tempo tra queste iniziative è il padiglione della Santa Sede, tutt’ora aperto alla Biennale di Venezia, che abbiamo curato come Musei vaticani. Una presenza importante. Ma se dovessi dire che a oggi sono venute fuori forme originali di rappresentazione artistica dei valori della Chiesa di Roma, direi una bugia. Ci vorrà tempo, la strada è in salita: quello di Montini è un azzardo temerario, ma è un seme che porterà frutti». Molte di queste esperienze, però, non riguardano l’arte per il culto, ambito che rappresenta la sfida, il vero cantiere del futuro. È troppo semplificativo pensare che alla radice ci sia la difficoltà di combinare la ricerca e le istanze espressive del singolo artista con le esigenze e le aspettative della comunità? «Il problema è che l’arte antica, da Giotto a Raffaello a Caravaggio, costituiva forme comprensibili da tutti, dagli intellettuali come dal più semplice e incolto tra i fedeli. Oggi questo non esiste più: anche in Biennale il cattolico medio si trova in difficoltà a capire. Ma siamo davanti a una mutazione generale in atto. Ci aspetta un lavoro secolare per inventare un nuovo linguaggio: viviamo in un tempo di decomposizione linguistica, in cui ognuno può fare ciò che vuole. Da questa decomposizione si sta formando, mi si passi l’immagine, il concime fra cui uno o due secoli verrà fuori, come accadde ai tempi di Dante, la nuova lingua figurativa del mondo. Il nuovo Michelangelo nascerà, deve accadere. Avverrà in Corea o in Cile, nessuno può saperlo: ma certamente non qui. La vecchia Europa ormai ha già dato». Le mostre di Firenze evidenziano un interesse costante da parte degli artisti verso il tema sacro o almeno di origine sacra. Come dobbiamo leggerlo? «La mostra, molto bella, a Palazzo Strozzi dimostra che il sacro è stato sempre stato presente, immanente, nelle forme dell’arte moderna. Anche negli anni delle rivoluzioni, delle repressioni, dei totalitarismi, degli ateismi le icone dell’antica religione sono rimaste presenti. Le vediamo in Otto Dix come in Guttuso. È restata la memoria. Quando vuole mostrare le atrocità della guerra e della shoah, un pittore ebreo come Marc Chagall dipinge un Cristo in croce, come nella magnifica Crocifissione bianca. In questo senso si può parlare di lunga durata del sacro. E, soprattutto, è tradotta in immagini che portano il segno della modernità. Questa non è una mostra apologetica, ma chiarisce che l’immanenza e la permanenza del sacro, anche quando ridotto a frammenti, reliquie che eppure vivono ancora, caricate di valori presenti, sono un fatto storicamente rilevabile».
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