L’hanno descritto come una «rivoluzione silenziosa», ma quello delle scienze cognitive è un approccio interdisciplinare allo studio del comportamento e della mente che sta dando frutti non certo nascosti. L’appuntamento che raccoglie moltissimi psicologi, neuroscienziati e filosofi da oggi a Roma è l’occasione giusta per fare un bilancio della "svolta cognitiva". Ne parliamo con Fabio Paglieri, ricercatore presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr di Roma e direttore della rivista «Sistemi intelligenti», uno degli studiosi italiani emergenti nel settore.
Il nome della disciplina è forse poco consueto al grande pubblico, anche se il suo oggetto è, ovviamente, di enorme interesse. E forse in molti sono rimasti fermi all’idea iniziale che siano lo studio del pensiero sul modello offerto dai computer. Che cosa sono invece oggi le scienze cognitive?«Come suggerisce il nome, le scienze cognitive propongono un approccio scientifico allo studio della mente, che affianca la riflessione filosofica, antropologica e sociologica. Ciò non significa che le scienze cognitive si riducano alle neuroscienze: psicologia, intelligenza artificiale, linguistica, economia comportamentale, etologia – queste e altre discipline partecipano tutte al progetto di una nuova scienza della mente. Una caratteristica unificante è il riferimento a modelli operazionali, incentrati sul funzionamento dei meccanismi e dei processi. Ciò si accompagna spesso al cosiddetto approccio sintetico: per capire un fenomeno, si cerca di riprodurlo. Per capire il movimento degli organismi viventi, si costruiscono robot capaci di muoversi in modo analogo. E poi, da tempo, "cognitivo" non significa più "inerente ai processi conoscitivi". La mente elabora non solo conoscenze, ma anche (e soprattutto) intenzioni, desideri, scopi, emozioni. Di tutto questo la scienza cognitiva si occupa ormai da decenni – e anche per questo il computer come modello del pensiero è entrato in crisi».
Il ruolo della corporeità e degli strumenti nei processi cognitivi e sociali è il tema dell’importante convegno che comincia oggi. Una delle critiche al progetto iniziale della scienza cognitiva era proprio di ignorare corpo e ambiente. Che cosa è cambiato? Che cosa abbiamo capito oggi?«La critica era un po’ ingenerosa, in quanto parzialmente fuori bersaglio. Le grandi sfide che ci si poneva a metà del secolo scorso riguardavano compiti in cui si potevano anche ignorare corpo e ambiente: per eccellere nel gioco degli scacchi, ad esempio, corpo e ambiente servono a poco. L’errore, se mai, è stato ritenere tali compiti rappresentativi di tutte le capacità cognitive. Oggi sappiamo che per un computer giocare a scacchi è una passeggiata, mentre per un robot passeggiare (sul serio) è un’impresa formidabile. Paradossalmente, le sfide attuali dell’intelligenza artificiale riguardano compiti che l’intelligenza naturale considera banali: percepire l’ambiente, muoversi con precisione e grazia, utilizzare strumenti. L’importanza di tali sfide non deve indurci nell’errore opposto: quello di considerare tutta l’intelligenza riducibile al coordinamento sensomotorio. Ragionare astrattamente è una delle caratteristiche distintive dell’uomo, e capire come farlo (magari meglio) deve rimanere una priorità».
Che immagine complessiva dell’essere umano viene restituita dalle scienze cognitive rispetto a quella consueta e intuitiva, che a volte si definisce psicologia di senso comune?«Un’immagine sicuramente più complessa e frammentaria – a volte troppo, giacché una sintesi completa delle conoscenze deve ancora arrivare. Tuttavia è un’immagine di straordinario interesse, non solo scientifico, ma anche per la vita quotidiana. Io mi occupo soprattutto di decisione e ragionamento, temi su cui oggi sappiamo molto di più di un secolo fa: i meccanismi con cui si compie una scelta, o le scorciatoie con cui si arriva ad una conclusione sono ormai piuttosto noti».
Negli Stati Uniti le scoperte e le competenze frutto delle scienze cognitive cominciano ad applicarsi alle decisioni politiche. Il cosiddetto modello Nudge, la "spintarella", consiglia di progettare in modi specifici gli schemi all’interno dei quali i cittadini devono scegliere, in modo da "orientarli", senza pregiudicare la loro libertà, verso le condotte migliori o più efficienti. Sono strategie efficaci, che dovremmo importare? Che ruolo "pratico" vede per gli studiosi di scienze cognitive?«L’efficacia di queste strategie è nota a livello individuale, ma resta da dimostrare su grande scala. A prescindere dall’efficacia, c’è comunque un equivoco da evitare: benché una maggiore comunicazione fra ricerca scientifica e livello politico sia auspicabile, non lo è affatto l’ipotesi di un mondo governato dalla scienza, in cui la politica si limita a eseguire ciò che un convito di Grandi Saggi suggerisce. Questa visione fraintende il ruolo essenziale della politica: quello di essere mediazione non violenta fra interessi contrastanti».
Le scelte pubbliche, ma anche quelle personali e private, come lei Paglieri ha illustrato molto efficacemente nel suo recente e agile volume Saper aspettare (Il Mulino). In esso si spiega come «destreggiarsi fra impazienza e pigrizia» proprio alla luce dei risultati di molti studi di laboratorio. Che cosa impariamo per la nostra esistenza dalle scienze della mente e del cervello? «I risultati più interessanti riguardano strategie che ci sembrano ragionevoli, ma che in realtà si rivelano disastrose. Ad esempio, rispetto all’attesa, c’è molto da imparare sul modo in cui scegliere la scadenza per un impegno. Intuitivamente, ci pare che più lontana è la scadenza, maggiori sono le probabilità di rispettarla. Ma le scadenze lontane sono brutte bestie. Ci spingono a non pensare al compito che ci attende, indebolendo la motivazione ad agire: dunque ci riduciamo all’ultimo. Inoltre, un compito remoto nel tempo pesa poco nel nostro "bilancio mentale", e ciò porta a prendere troppi impegni, al grido: "Tanto avrò tempo!". Tutti noi paghiamo le conseguenze di questi tranelli del pensiero. La soluzione è semplice: accettare scadenze solo a breve termine, e scomporre scadenze a lungo termine in compiti da realizzare a intervalli regolari».
In particolare, perché saper posticipare la ricompensa quando si è molto giovani è un predittore così efficace dei successi personali e professionali? Sembra una rivalutazione scientifica della virtù classica della temperanza...«In effetti lo è, e mi fa piacere che si sottolinei la cosa. C’è bisogno di un recupero della visione classica delle virtù. Rispetto al tema dell’auto-controllo, la ricerca è ancora dominata da una visione eroico-punitiva: sapersi controllare è visto come la capacità di resistere ad un impulso potente ma malaugurato (una tentazione, ad esempio). Ciò corrisponde a quel che Aristotele, nell’
Etica Nicomachea, chiama continenza. Ma per Aristotele la continenza, sebbene preferibile all’abbandono a istinti negativi, è comunque solo un passaggio verso uno stato eticamente assai più desiderabile, quello dell’eccellenza. Per questo l’apprendimento precoce di comportamenti virtuosi è così importante. Oggi di eccellenza della condotta quasi non si parla, ed è un male, se vogliamo offrire sostegno a chi lotta per migliorare il proprio autocontrollo. I propositi più saldi, infatti, sono quelli che non vogliamo infrangere».