Descrive così il filosofo Armando Rigobello il suo Novecento e il traguardo dei suoi 90 anni che compie domani (il 3 febbraio). Ricordi che lo portano a rievocare, nello studio della sua bella casa romana, affollata di libri e di carte, in Borgo Pio, gli anni della contestazione, le Br, gli incontri inaspettati, grazie alla frequentazione della Fuci e dell’Azione Cattolica con personaggi lontani dalla sua lunghezza d’onda come Toni Negri, Gianni Vattimo o Umberto Eco, la sua turbolenta permanenza nel consiglio di amministrazione della Rai dal 1977 al 1980, guidata dal leggendario impresario teatrale Paolo Grassi.
«Nonostante i miei novant’anni cerco di vivere ogni giorno come se fosse il primo. Più che un teoretico mi sento uno storico della filosofia. Devo confidare non ho rimpianti su quanto avrei potuto approfondire, per esempio sullo studio di Agostino, di Newman o di Edmond Husserl - racconta l’anziano filosofo, originario di Badia Polesine nel Veneto - . Avrei potuto studiare di più ma anche di meno. Se sono diventato professore ordinario di filosofia e ho fatto di questo mestiere la mia ragione di vita lo devo al mio maestro dell’università di Padova Luigi Stefanini che intuì per primo le mie capacità («lei ha una testa fatta bene») ma anche alla stima di uomini come Michele Federico Sciacca con cui mi confrontai nel mio primo concorso da professore. Una certa notorietà accademica mi arrivò, per la prima volta, con la pubblicazione del 1955 Il contributo filosofico di Emmanuel Mounier; si trattò di uno studio pionieristico sul pensiero di questo grande intellettuale che non era mai stato affrontato né in Francia né in Italia».
A dare una svolta alla sua carriera accademica fu soprattutto la sua esperienza in Germania. Ci può spiegare il perché?
«Vincendo la borsa di studio alla Alexander von Humboldt Stiftung a Monaco di Baviera mi si aprirono le prospettive non solo della carriera universitaria ma di respirare un’aria internazionale e di grande confronto con studenti provenienti da varie parti d’Europa. Fu veramente un’esperienza unica e irripetibile. Ricordo che proprio là conobbi Romano Guardini e che di fronte al mio stentato e bisbigliato tedesco per facilitare il colloquio cominciò a parlarmi in dialetto veneto. Era veramente una persona amabile e di grande temperamento. Ed è proprio di quel periodo il mio approfondimento agli studi del trascendentale e di Kant. Nel 1963 il frutto della mia ricerca tedesca approderà nella pubblicazione I limiti del trascendentale in Kant ».
Tappe accademiche che La porteranno, professore, a insegnare in vari atenei da Perugia, La Sapienza a Roma fino a diventare uno dei fondatori della facoltà di filosofia a Tor Vergata...
«Sono stati anni di grande lavoro e confronto accademico. A Perugia mi trovai a contatto diretto con Pietro Prini; tra l’altro seguii la tesi come correlatore di quello che considero un dei miei più riusciti allievi Dario Antiseri. Come non posso dimenticare cosa significò per me giovane accademico confrontarmi con l’irruenza , il rigore ma anche l’umanità di un uomo non facile come Cornelio Fabro. Di lui faceva impressione la conoscenza che aveva di Tommaso d’Aquino. Del periodo romano mi tornano in mente i difficili anni della contestazione, del 1968 e di come per un periodo mi fu impedito addirittura di insegnare e di come gentilmente i miei allievi mi portavano a casa la posta che non potevo ritirare in facoltà. Sono stati anni difficili dove addirittura nel periodo più buio del terrorismo ricevetti anche delle minacce di morte solo perché mi chiamavo Rigobello. Come certamente fu arricchente la mia esperienza all’interno del consiglio di amministrazione della Rai. Rammento che mi trovai spesso in sintonia con la figlia di Benedetto Croce, Elena. Di solito venivo consultato su temi che riguardavano la morale o argomenti attinenti al cattolicesimo. Forse per la mia poca conoscenza dei mezzi televisivi mi sentii un po’ come una voce fuori dal coro. E poi certamente inconsueto per un cattedratico come me fu l’essere invitato, uno dei pochi laici, nel 1985 a Loreto per il convegno ecclesiale della Cei. Fu l’insistenza dell’allora segretario della Cei, monsignor Egidio Caporello a convincermi a partecipare. Ricordo ancora il titolo del mio intervento 'Il volto della società italiana'. Di quell’evento mi colpì soprattutto la forza carismatica di Giovanni Paolo II e la svolta che seppe imprimere alla conclusione di quel turbolento convegno ecclesiale».
Un incontro fondamentale della sua vita di filosofo è stato quello con Paul Ricoeur. Ci può spiegare il perché?
«Nel mio piccolo mi sono prodigato a far conoscere in Italia il suo pensiero ad un vasto pubblico. Ricordo che, pur non parlando in italiano, lo capiva be- nissimo. In lui ho sempre intravisto un continuatore ideale del personalismo comunitario di Mounier come proprio per la sua formazione protestante mi ha sempre colpito il suo 'pudore della testimonianza' che ha sempre messo in evidenza per la sua attenzione al trascendente e all’importanza che nei suoi scritti ha dato all’esegesi della Parola».
Qual è il bilancio che si sente di tracciare sui suoi 90 anni professore?
«Come filosofo cattolico che non si chiude mai in se stesso penso che la sfida più stringente che ci attende è quella di coniugare un sano rapporto tra la fede e la scienza. E imparare a scendere dalla propria cattedra, certezze accademiche e ad ascoltare chi è diverso da noi. In una parola fare propria la lezione di Emmanuel Lévinas: 'Stare in silenzio di fronte all’altro'. Mai come in questo nuovo secolo la maniera di concepire la razionalità stessa e la modernità è cambiata. In un certo senso di fronte all’idolatria del progresso e della scienza c’è stato, come direbbe Maritain un 'inginocchiamento davanti al mondo'. Mi vengono spesso in mente le parole di Joseph Ratzinger quando parla di un 'allargamento della ragione' per interpretare questa sfida e per opporsi a questo relativismo dilagante. C’è il pericolo che un eccesso di razionalità nella scienza rischi di trasformarsi come qualcosa che per forza deve essere anticristiano e dove soprattutto la nostra religione rivelata venga percepita come qualcosa che è contro la modernità. La fede non è mai contro il progresso anche alla luce delle nuove scoperte. Credo che la scienza non è ancora in grado di spiegare il tutto. Per questo forse ritengo che una vecchia disciplina come la filosofia proprio per il suo amore e tensione al vero possa ancora rappresentare l’anello di congiunzione tra i vari saperi».