Non solo lo Stato, ma anche la Chiesa italiana deve festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia. Non ha riguardi di quanto siano oggi
à la page i vari revisionismi o federalismi Andrea Riccardi, non recrimina sulla «questione romana» e nemmeno s’inquieta per lo spettro dell’invasione islamica: il professore di Storia contemporanea a Roma Tre nonché fondatore della Comunità di Sant’Egidio dice invece chiara la sua convinzione – maturata ad ambedue i titoli, di storico e di credente – che persino nelle diocesi e nelle parrocchie nel 2011 si debba celebrare l’Italia unita.
Professore, un bel paradosso dopo settant’anni di «questione romana» e di «non expedit»: adesso tocca dunque ai cattolici difendere l’unità d’Italia?Credo che abbiamo troppo insistito solo sul fatto che i cattolici sono stati storicamente contrari all’unità. Ma fu una fase che ha riguardato gli inizi del processo di unificazione. Da tempo ormai la Chiesa e i cattolici italiani sentono invece l’unità del Paese come un forte valore. È il senso della "grande preghiera per l’Italia" del 1994, quando Giovanni Paolo II avvertì il rischio di secessione del Paese. Oppure della posizione dei vescovi sullo sviluppo del Mezzogiorno, dove si chiarisce che non c’è futuro senza solidarietà.
Allora in merito abbiamo qualcosa da rimproverarci, vista l’acerrima lotta della Chiesa contro lo Stato fino al concordato del 1929... Non sarà mica anche colpa «nostra» se oggi risorgono le tentazioni secessioniste?Anzitutto, va ricordato che, insieme al neo-guelfismo, è esistito pure il cattolicesimo liberale e filo-unitario alla Manzoni... Il divorzio tra la classe dirigente liberale e il mondo cattolico nel Risorgimento ci fu, e ruotava soprattutto intorno al ruolo di Roma; sono dunque chiare le responsabilità cattoliche nella storia del Paese. Ma questa è storia contemporanea remota. La soluzione alla "questione romana" è venuta invece agli albori del ’900 e già nel secondo decennio del secolo scorso, con la nascita del Partito Popolare e uomini come don Sturzo, si può dire che la frattura fosse superata. Il Novecento è stato dunque sostanzialmente un secolo in cui la Chiesa italiana ha "sentito" il Paese e si è coinvolta in esso.
Dunque non è d’accordo con i suoi colleghi storici cattolici «revisionisti» sul Risorgimento e i suoi effetti?Non ho paura degli approfondimenti storici attraverso una revisione. Ma la storia non condanna e non promuove; deve comprendere. Credo che grazie al distacco cronologico possiamo capire meglio anche l’unità d’Italia. Ad esempio, è vero che l’unificazione è passata anzitutto sopra il Sud, tanto che si è parlato di colonizzazione; ma d’altra parte lo Stato unitario aveva anche bisogno di un forte accentramento... E poi nel 1860 si sono verificati molti cambiamenti positivi anche per i cattolici: sono finiti i regalismi regionali e la gerarchia si è strutturata intorno a Roma. Sì, credo che il Risorgimento abbia fatto bene pure alla Chiesa.
In ogni caso, i cattolici hanno poi avuto a disposizione nel dopoguerra 50 anni di governo per tentare di «fare l’Italia». Qual è il suo bilancio in merito?Positivo. Basti pensare allo sviluppo economico nazionale, all’uscita del Paese da una secolare povertà... Grandi figure come De Gasperi restano decisive per la nostra storia; il leader dc è stato capace di affermare il valore dell’Italia in Europa e di avviare un nuovo ripensamento della nazione in un quadro continentale: proprio ciò di cui vi sarebbe bisogno ora. Certo, si sarebbe dovuto investire più sulla cultura nazionale; però in quegli anni si aveva paura di parlare di nazione, per non tornare al modo fascista di intenderla.
Sembra di capire che i dubbi sull’opportunità di celebrare il 150° dell’unità lei li scioglierebbe senza problemi. Ma come festeggiare? Con quali obiettivi ricordare l’evento, per non fare solo del trionfalismo di facciata?Secondo me questi 150 anni sono un’opportunità e insieme una sfida per rileggere la realtà del nostro Paese, per riflettere sulla nazione intesa come casa comune e anche per nutrire la cultura dello stare insieme. Mi auguro perciò che si vada a fondo della nostra storia, perché sono convinto che la nostra identità vada ripensata. L’anniversario ce ne dà l’occasione anche in senso prospettico: per dire cioè alle giovani generazione a che cosa serve l’Italia.
Appunto: a che cosa serve?Senza uno Stato forte, serio, siamo tutti più poveri. Anzi, siamo in retrocessione. Perché la società sia viva, legata al territorio, plurale, c’è bisogno dello Stato; soprattutto nei confronti di un mondo globalizzato. Sono convinto che l’Italia da sola non ce la può fare ad affrontare le grandi sfide. Già ora il panico della globalizzazione spinge a rinchiudersi in territori più ridotti di quelli nazionali, secondo l’idea che – limitando la realtà al mondo più prossimo – si può controllarla. Si tratta però di un’illusione, che può pagare elettoralmente o all’interno di una politica-spettacolo, ma rimane un’illusione. Il vero modo di affrontare il futuro è un Paese unito, forte, che abbia la sua identità e sia connesso alla realtà europea. Perché la vera sfida del XXI secolo non sarà l’islam (un confronto semmai a breve termine), bensì le economie fortissime dell’Asia: Cina e India.
Le spinte a difendersi, a respingere gli estranei, non aumentano dunque la coesione del corpo sociale?Tutt’altro. Sono forme di una politica senza cultura. Ripeto: possono pagare a breve termine alle urne, perché ormai ci muoviamo tra il miracolo e il trauma e quindi dipendiamo da eventi interpretati emotivamente. Però bisogna riprendere a fare una politica ragionevole; anzi credo proprio che il richiamo del Papa alla ragione riguardi anche la politica.
«Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor», si diceva una volta dell’Italia. Ma oggi l’«altare» – la religione – non è più unico; la «lingua» traballa sotto l’assalto dei dialetti; e il «cor» qualcuno vorrebbe chiuderlo in frigorifero... Che cosa ci terrà dunque insieme, come nazione?Quanto alla lingua, ai governanti dei Paesi africani dico sempre che – quando rinunciano a una lingua internazionale a favore delle locali – fanno torto alle giovani generazioni. Anche da noi si tratta di tenere alto l’italiano e di imparare altre lingue, perché oggi essere italiani è un modo speciale di essere europei. Siamo un Paese che rappresenta il Sud del continente, con una collocazione particolare che guarda al Mediterraneo; siamo uno Stivale fondato su una storia e una tradizione, ricco di una certa vicenda geopolitica, dotato di un’eredità cristiana... Tutti elementi da cui si può trarre un umanesimo italiano e dunque unificante per noi e insieme prezioso per l’Europa.
Ma oggi ci è più utile il federalismo o l’unità?Abbiamo bisogno di ripensare l’unità, se vogliamo dare alle Regioni maggiore responsabilità. Non si tratta infatti di giocare l’unità in modo belga, cioè sottraendo in continuazione competenze allo Stato, costruendo un federalismo che svuota l’unità; ma di costruire un miglior modo di governare a livello locale.
E se proprio gli stranieri dovessero fornirci lo spunto per un soprassalto d’italianità?In questo gli immigrati hanno un grande ruolo, perché gli stranieri sono ormai una necessità del Paese: anche per una questione meramente demografica. Dovevamo dunque fare una politica d’immigrazione controllata, ragionata, ben accolta (che non vuol dire trasformare la Penisola in un aeroporto di passaggio), invece di negarla per poi subirla casualmente. Dobbiamo avere più fiducia nella nostra identità nazionale, che plasmerà le minoranze provenienti dall’esterno. Del resto, non temevamo di diventare un Paese "islamico"? Invece adesso si scopre che la maggioranza dei nostri immigrati viene dall’Est ed è cristiana ortodossa...
Ma ce li abbiamo poi quei «valori forti» da proporre ai «nuovi italiani», gli immigrati, per arrivare a una cittadinanza condivisa, a un’integrazione?L’identità nazionale non si basa su valori morali o religiosi, ma sul senso del passato e su quello di un futuro in comune. Viene dunque sia dalla necessità, sia dalla storia. Durante la prima Repubblica questa musica è stata suonata sugli spartiti delle diverse culture politiche dei partiti. Oggi invece nessuno lo fa più. Di qui l’aumentata responsabilità della Chiesa di riflettere sull’identità e sulla storia nazionale, anche perché essa è stata da sempre uno dei grandi elementi unificanti del Paese.
Dunque, lei sostiene che la celebrazione del 150° dell’unità dovrebbe farla pure la Chiesa italiana? Credo di sì, dai massimi livelli alle diocesi o alle parrocchie. Del resto, un passaggio del Progetto culturale riguardava proprio l’identità nazionale... Bisogna stare attenti a non archiviare troppo nello scontato (come abbiamo tendenza a fare) i grandi movimenti storici dei quali siamo figli; sono aspetti che vanno coltivati e un po’ più di consapevolezza non farebbe male. Inoltre, l’anniversario può essere anche un terreno di dialogo tra laici e cattolici.