Il grande critico
letterario
Ezio Raimondi
è scomparso il 18 marzo
a Bologna all’età
di 90 anni.
Ora la sua camminata ha una sosta.
Ezio Raimondi, infaticabile camminatore delle letterature, riposa. Ma sono certo che in quel luogo dell’oltretempo dove ritmo e danza e quiete sono finalmente uno, lui, il suo passo, le voci degli scrittori e dei poeti nella sua voce porteranno un passo, un silenzio, una meraviglia in più. Lo abbiamo incontrato noi tanti suoi studenti mentre in fondo all’aula di Bologna camminava e conversava con noi e contemporaneamente con Borges o Tasso, con Manzoni (quel suo Manzoni strappato alle scontate cerimonie) o con Broch o con Dante. Nutriva la nostra meraviglia, la nostra fragile curiosità. Faceva della letteratura il teatro di ombre e di volti e di parole in cui mettere la nostra vita a rischio, e a confronto. Camminatore senza binari rigidi, utilizzava pezzi di sentiero aperti dalla critica rabdomantica di un Serra o dalle sintesi dei critici americani. Mai sottomise la sua libertà a un metodo che non fosse la conversazione e l’ascolto reciproco delle parti anche lontane, degli autori anche discordi. Non voleva chiudere nessuna opera in una teoria o in uno schema. Voleva che parlasse con te e viceversa. Non gliene saremo mai grati abbastanza, in questa epoca di metodologie che non salvano mai la vita. Non gli saremo mai grati abbastanza di averci fatto vedere a- nimato e vivo quel teatro di parole. Uomo che veniva dal popolino basso di una Bologna che tirava avanti grazie ai lavori della madre domestica presso certi signori (era nato a Lizzano in Belvedere il 22 marzo 1924), il ragazzino Raimondi diede i segni di una prodigiosa attitudine a imparare. E questa attitudine lo ha accompagnato fino alla fine, stupendoci ogni volta che lo si trovava più avanti, più curioso, più fervido. La sua camminata è stata lunga, vasti i giri e le ricognizioni che ha compiuto. I suoi volumi di studi sono lì a testimoniarlo. Dalla filologia alla letteratura comparata, ai fondi che hanno cambiato per sempre la percezione di certe opere o parti di quelle. Basti pensare ai Promessi sposi o al Purgatorio di Dante. E la generosità del suo impegno lo testimonia anche la folta schiera di coloro che, pur seguendo percorsi diversi, gli sono debitori. E io tra questi. Con lui mi ha legato una strana lunga amicizia, iniziata con una impegnativa tesi, in anni in cui gli chiedevo di accompagnare certe iniziative di approfondimento in Università, negli incontri con scrittori – memorabile uno con Testori, o quello con Luzi durante il quale nacque l’idea di dar vita all’unico Centro di poesia contemporanea attivo in una università italiana, da lui presieduto fino a oggi. Scelsi – lui capii subito – di non cercare la carriera accademica. Accompagnò la mia poesia viaggiatrice e vitale con attenzione e con una puntuale nota scritta per un libro. Mi incoraggiò sempre e sostenne, pur conoscendo la mia natura brada di poeta insofferente a rituali accademici. Lui stesso finì quella sua prestigiosissima carriera accademica in modo amareggiato e deluso. Quella che lo congedò senza nemmeno troppo riguardo non era l’università che aveva sognato e che aveva praticato per decenni con gli studenti. Troppe meschinità e pavoneggiamenti, troppa ideologia l’hanno inquinata e resa esausta. Nelle sue lunghe camminate – quelle che faceva a lezione ma anche per via, facendosi accompagnare da un assistente o dall’ultimo curioso degli studenti – c’è un emblema. La letteratura sottratta alla natura di cammino, di viaggio, di avventura conoscitiva profonda e drammatica, si irrigidisce in culturalismo sterile, in serbatoio ideologico, o in passatempo per signorine. La statura dello studioso in Raimondi era pari alla inquietudine dell’uomo. Il viaggio in cui ci ha introdotto era il viaggio del suo spirito, non solo il suo temperatissimo e prodigioso mestiere. Una inquietudine espressa in modo pudico, senza clamore. Ma vivacissima. Quando gli proposi di fare un libro di conversazioni insieme, di conversazioni non solo letterarie ma sulla vita, e lui accettò destando più di qualche scalpore, lo volle intitolare La speranza contesa (l’editore fu Guaraldi). Fu uomo di fede, senza fronzoli. Le conversazioni che per vent’anni quasi settimanalmente si facevano furono per me ricche di suggerimenti e di traiettorie, e credo per lui occasione fuori dai vincoli di debiti accademici per mettere a fuoco certe questioni insieme. Ricordo per esempio la sua curiosità per una scrittrice come Flannery O’Connor di cui volle leggere certi libri che gli regalai. O la instancabile forza con cui mi portava a considerare le “Osservazioni” di Manzoni. Si dice di solito quando se ne va una figura così imponente che lascia un vuoto. Non solo negli affetti della figlia e del nipote e di coloro che lo hanno amato. Certo Raimondi lascia uno spazio che non è colmabile. Di cavalli di razza così ne nascono raramente, e nella critica letteraria – pratica peraltro oggi ampiamente in crisi e da reinventare – di certo sono rarissimi. Ma lui lascia un pieno, verrebbe da dire. Lascia non solo scaffali pieni di studi e di scoperte e di preveggenze – fu primo a comprendere l’importanza di un Bachtin o a volere tradotti da il Mulino altri studi fondamentali come quelli di Freccero – ma lascia un teatro vivo, una certa animazione dietro di sé. Molti professori di liceo, molti giovani e meno giovani scrittori che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo, la pazienza di leggerlo hanno di certo ereditato la letteratura come un “pieno” non come un “vuoto”. Intendo un teatro dove va in scena non una maschera, ma il volto sempre ferito e sempre misteriosamente glorioso dell’uomo. Non a caso, fu Manzoni uno dei suoi grandi autori e forse quello con cui principalmente sentiva di dover portare in discussione certe acquisizioni della cosiddetta modernità oltre che le ricchezze ctonie e sublimi della lingua e del suo mutamento. Le pagine dedicate al gran romanzo, in prospettiva europea e internazionale, e quelle dedicate a La colonna infame danno il senso di un confronto fertilissimo e attuale. La sua camminata ora ha una sosta. Il Dio dei viandanti e dei pellegrini sa riconoscere il passo dei suoi, e sa farlo sconfinare in una nuova luce.
Nel 2012 il “Bonura” di Avvenire
Il 10 maggio 2012, all’interno del Salone del Libro di Torino, “Avvenire” gli aveva consegnato il Premio Giuseppe Bonura per la critica militante, giunto alla terza edizione. Ezio Raimondi era stato, infatti, capace di unire la ricerca filologica e documentaria con la sperimentazione dei più moderni metodi interpretativi. Professore emerito all’Università di Bologna, Raimondi fu condirettore della rivista “Convivium” e di “Lingua e stile”, direttore dell’Archivio Umanistico Rinascimentale di Bologna e di “Intersezioni”. Lunghissima la sua bibliografia critica, dal primo saggio su
Codro e l’Umanesimo a Bologna (1950) a
Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano (1961),
Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca (1970),
Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi (1974),
Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime (1985),
L’etica del lettore (2007). Tra le sue opere più recenti si ricorda
Un teatro delle idee. Ragione e immaginazione dal Rinascimento al Romanticismo (2011).