lunedì 9 settembre 2024
Il regista ha chiuso ieri la Mostra di Venezia con “L’orto americano”, un ritorno thriller gotico: «Anche io, come il protagonista, parlo con i morti: le persone che mi hanno amato e che portano pace»
Il regista Pupi Avati

Il regista Pupi Avati - Helen Rizzoni

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Pupi Avati con le sue dieci partecipazioni alla Mostra del cinema di Venezia ha battuto ogni record. L’ultima quella di ieri sera, quando il grande regista ha avuto l’onore di chiudere la 81ª edizione del festival con la proiezione del suo nuovo intrigante lavoro L’orto americano, il suo primo film in bianco e nero, un thriller gotico di cui è sceneggiatore e regista, oltre che coproduttore insieme al fratello Antonio, Minerva Pictures e Rai Cinema, tratto dall’omonimo romanzo da lui scritto. Un film visivamente affascinante e dalla trama avvincente, che richiama esplicitamente i noir americani alla Hitchcock, per raccontare una storia ambientata fra il rassicurante Midwest americano e le brume misteriose della bassa padana dell’immediato dopoguerra. Uscirà nelle sale tra febbraio e marzo 2025.

Siamo nel 1945 a Bologna, ai tempi della Liberazione: per un giovane aspirante scrittore (l’ottimo Filippo Scotti) che ha avuto problemi psichiatrici, è colpo di fulmine per Barbara, una bellissima nurse dell'esercito americano. L'anno dopo lo scrittore va negli States e per caso va ad abitare in una casa contigua a quella della sua amata. Lì vive l'anziana madre (Rita Tushingam), disperata per la scomparsa della figlia che non ha dato più notizie di sé dalla conclusione del conflitto. Inizia così da parte di Filippo una grande avventura, quando scopre nell'orto della vicina, in una teca, dei resti umani femminili che lasciano ipotizzare un serial killer. La ricerca poi si sposta nelle campagne del ferrarese fra case isolate, personaggi ambigui e processi sommari per vivere una situazione terrificante fra realtà e immaginazione. Lo spiega ad Avvenire il regista che al Lido è stato anche ospite degli incontri della Fondazione Ente dello Spettacolo in dialogo con monsignor Davide Milani.

Pupi Avati, come mai lei torna al genere gotico e horror degli inizi?

«Questo è comunque un film della maturità, quando senti sempre più il bisogno di lasciare tracce. Il cinema gotico l'ho sempre amato e in questo caso più che mai. Ho fatto ben 54 film ed è la prima volta che ho la sensazione di fare cinema-cinema, grazie a questa storia di genere e soprattutto alla forza straordinaria del bianco e nero. Con l'umiltà di una storia che vuole essere più popolare e raggiungere il pubblico. Nell'Orto americano ho poi volutamente seminato tracce e riferimenti del cinema Usa anni Quaranta che amavo da ragazzo».

Lei dice che è anche un film autobiografico...

«Questo film racconta una storia di estrema solitudine, quella del protagonista Filippo in cui mi identifico totalmente. Il protagonista è ricoverato in un ospedale psichiatrico perché è uno che parla con i morti. Quello che parla con i defunti sono io che tutte le sere prima di addormentarmi, angosciato per motivi anagrafici, richiamo tante persone a me care e che non ci sono più. Quando chiamo i miei amici o i miei genitori sento che la stanza via via si riempie e si popola di una serie di entità che mi vogliono bene e mi riappacifico con il mondo e la vita».

Il genere mistery, a cavallo tra vita e morte, ha a che fare con la spiritualità?

«Ma certo, io punto tutto su quello. Sulla dilatazione della realtà: la realtà è sempre molto modesta, deludente e noiosa. Quell’immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che ti furono care ti tiene in vita, anche solo dicendo i loro nomi ti fa sentire in un mondo già più grande di quello che è».

Nel film il protagonista è un ragazzo timido che segue un amore idealizzato. Anche lei?

«Io sono stato un essere umano molto timido con grandi complessi di inferiorità e c'è molto di me in questo personaggio. Al mio tempo il tema centrale erano le ragazze e l'amore e mi dispiace per le nuove generazioni non è più così. Le storie d'amore devono tornare all'ingenuità e al senso dell'effimero, non consumare tutto in una notte e poi domani ti chiamo o magari no. Io e mia moglie quel sì ce lo siamo detti 60 anni fa e siamo ancora qui».

Nella pellicola, come spesso nei suoi film, appaiono anche i deboli, i folli e gli emarginati fra il manicomio o la provincia.

«Amo la bellezza di queste persone. Ho sempre pensato che le persone più sono vulnerabili più sono di qualità. Le beatitudini, per citare il punto forse più alto del Vangelo, del discorso della montagna dicono proprio questo, che gli ultimi saranno i primi. Quelli che sono gli scarti, come li chiama il Papa, della società, sono destinati nei miei film a vivere l’affetto e l’attenzione che meritavano. Anche nella scelta degli attori: mica bisogna ricorrere sempre a delle star, si può anche cercare fra gli attori meno noti ma di talento che hanno difficoltà a trovare un ruolo. Dare gioia è molto più bello che riceverla, questa è la grande lezione che un uomo della mia età può trasmettere».

C’è anche il ritratto di un’Italia rurale che è praticamente scomparsa.

«La modernità ha fatto sì che si sia perso il passato. Nessuno ha più un’idea di passato, si è perso l’allocuzione avverbiale “per sempre”, nessuno ha più il coraggio di parlare del per sempre se non applicato alla morte e tutti si accontentano di vivere in un eterno presente che è privo di prospettive. Noi dobbiamo trasmettere ai giovani il coraggio, la sfrontatezza di credere nei loro sogni personali e nelle loro ambizioni: la qualità di quello che si aspettano dalla vita è fondamentale. Ma non è facile, sono educati alla rassegnazione, contano solo i soldi, solo la tecnologia. Anche le ideologie sono finite. Invece io dico ai genitori: educate i vostri figli ad essere irragionevoli e a sognare».

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