Una scena di “La classe operaia va in paradiso”, liberamente tratto dall’omonimo film (del 1971) di Elio Petri
In principio, all’origine di questa singolare, complessa e ardita operazione teatrale su un film altrettanto insolito, controverso, foriero di polemiche trasversali, da tutti discusso ma da pochi visto, ci fu l’epifania di Lino Guanciale che quest’opera cinematografica, La classe operaia va in paradiso del 1971, l’ha studiata e proposta con passione a Claudio Longhi, il direttore dell’Emilia Romagna Teatro, perché colpito dalla portata profetica del film di Elio Petri: «Restai folgorato, più che dalle interpretazioni proverbiali di Volontè, Melato e Randone, dalle pochissime scene di spaccato intimo quotidiano in cui la luce azzurrina sprigionata dal tubo catodico opacizzava e obnubilava gli sguardi dei familiari. Ci ho letto un presagio forte sulla nostra contemporaneità; c’è un potere vaticinatore in quella situazione che evoca e preannuncia la tirannia ipnotica del mezzo televisivo. Se poi alla luce bluastra della tv dell’epoca si sostituisce quella odierna biancastra dei nostri smartphone allora le latitudini non risultano poi così distanti ».
Claudio Longhi, che ha accolto con entusiasmo la proposta di Guanciale e ha curato la regia di questo spettacolo, che del film conserva intatto solo il titolo ma che poi si prende la libertà di analizzarlo, smontarlo, integrarlo e ricrearlo per il palcoscenico, è ovviamente sulla stessa lunghezza d’onda del popolare attore di Avezzano: «L’attualità del film scaturisce dalla sua inattualità, dal senso di perdita che si prova di fronte a un mondo in cui si è eclissata la coscienza di classe». In effetti parole come “classe operaia, lotta di classe, proletariato” oggi suonano obsolete e desuete, sembrano emergere da uno scavo di archeologia lessicale o, citando la canzone di Fausto Amodei, “Il tarlo”, che fa da prologo alla pièce, «roba paleolitica, puzza troppo di politica, ma non ve l’hanno detto che la storia è finita?».
In realtà la storia continua: «Trovo illuminante ed eloquente a tale proposito – sottolinea Longhi – il monito di Edoardo Sanguineti del 2006 quando sosteneva che il 98 per cento dell’umanità vive ancora in condizioni di proletariato o sottoproletariato, solo che non lo sa, non ne ha coscienza». Anche l’alienazione contemporanea, perlopiù legata a una bulimia consumistica, è figlia delle forzature produttive disumane vissute dall’operaio delle lotte post- sessantottine «obbligato per la sua stessa sopravvivenza a diventare un consumista, ad aiutare in qualche modo lo stesso sistema capitalista», come viene giustamente esplicitato a un certo punto della rappresentazione. Già, l’allestimento. L’iniziale folgorazione di Guanciale ha partorito un lavoro ricco e articolato; dell’intreccio filmico è restata inalterata la vicenda di Lulù Massa, l’uomo-macchina stakanovista, il re del cottimo, vilipeso dai colleghi perché immolatosi allo sfruttamento produttivo della fabbrica, chiara evocazione dello Charlot di “Tempi Moderni”.
Solo dopo l’incidente della perdita di un dito il protagonista, interpretato dallo stesso Lino Guanciale, strepitoso e impareggiabile nel modulare registri vocali diversi e una recitazione epica e straniante, recupererà un barlume di consapevolezza sul non senso della propria esistenza lavorativa. Ma il plot qui è solo un pretesto per un racconto e una visione molto più poliedrica e prismatica: si assiste infatti alla vivisezione e all’analisi del film di cui si svela la genesi, il processo creativo, il vespaio di contestazioni che scatenò e quindi in scena si alternano e sovrappongono alla storia di base altri personaggi, dal regista allo sceneggiatore, agli spettatori che animano il dibattito in sala in stile pirandelliano “Questa sera si recita a soggetto”, al “canta-cronache”, l’efficace e brillante Simone Tangolo, che, alla stregua dei songs brechtiani, intervalla, commenta o introduce contesti e personalità dell’Italia del boom.
Video, didascalie, musica dal vivo, velatini, pannelli, luci, sono tutti elementi in perenne dialettica all’interno di una drammaturgia sul crinale della frammentazione e del disorientamento e che senz’altro richiede un’attenzione compulsiva. Ma Longhi non ha dubbi a riguardo e sposa la tesi brechtiana secondo cui «la sfida del teatro è quella di rappresentare la complessità del reale». E c’è poi comunque una sapiente trovata registica che aiuta nella fruizione e riduce brillantemente la distanza fra pellicola e palcoscenico: il nastro trasportatore posizionato sul fondo della scena che rimanda alla catena di montaggio ma anche, con valenza metalinguistica, al movimento della macchina da presa oltre a essere funzionale al susseguirsi di situazioni temporalmente e spazialmente diverse senza soluzione di continuità.
Ma le idee non si esauriscono nello spettacolo, che dopo aver sostato al Teatro Arena del Sole di Bologna avrà lunga tournée fino a fine stagione, bensì lo travalicano. Lino Guanciale infatti è anche protagonista di incontri nelle scuole sia prima che dopo lo spettacolo per un’intensa opera di formazione e di pedagogia teatrale con l’obiettivo di abbattere il muro della diffidenza delle giovani generazioni verso l’arte più ancestrale, la più tangibile e irriproducibile, distante anni luce dalle pratiche virtuali dei nativi digitali, ma che facilmente attraversa gli animi degli studenti con la stessa agilità con cui Lulù Massa alla fine sfonda il muro che lo separa da una definitiva presa di coscienza. Un muro di polistirolo certo, finto, ma non falso.