Comincia a marzo la scuola in Argentina. E in quell’ultimo scorcio di estate sudamericana del 1964 entra nell’aula della quarta, fra le mura secolari del Collegio gesuita dell’Immacolata Concezione a Santa Fé, un insegnante di 27 anni. Appartiene alla Compagnia di Gesù. Non è né magro né grasso. La fascia nera in vita gli cade fino all’orlo della tonaca. Si fa un segno di croce. Recita la preghiera prima della lezione. E inizia: «Mi chiamo
Jorge Bergoglio e sarò il vostro professore di letteratura spagnola e di psicologia». I ragazzi lo scrutano: hanno fra 16 e 17 anni. Qualcuno osserva: «Che “faccia di bimbo”»... Sarà il soprannome che lo accompagnerà per i due anni all’Immacolata. Insieme con un altro appellativo:
maestrillo. Nulla di spregiativo. Nel vocabolario gesuita il termine spagnolo indica il “tirocinio” come docente per uno scolastico della Compagnia. Un periodo che a Bergoglio avrebbe «insegnato a essere più padre e più fratello», dirà lui stesso. E in classe sembra anticipare lo stile del suo pontificato: dall’attenzione alla persona alla battuta semplice, dalla perseveranza al dialogo col mondo. Lo si tocca con mano nel volume in uscita
Maestro Francesco (Mondadori, pp. 96, euro 15) che racconta il futuro Papa visto da uno dei suoi allievi,
Jorge Milia, oggi giornalista e scrittore. Una «delle apparenti contraddizioni della Compagnia » – sostiene l’autore – porta il giovane Jorge Mario a Santa Fé: un chimico viene messo a insegnare lettere nel più antico collegio del paese. Ricercare e curiosare sono le sue parole d’ordine. E per comunicarle ai ragazzi rivede le prassi dell’Immacolata. Perché, scrive il giovane gesuita nella rivista della scuola, «spesso gli sforzi di trasmettere la verità ai nostri alunni si riducono a una timidezza gelida». Così accade che il
maestrillo metta nelle mani degli studenti i libri censurati dalla biblioteca dell’istituto. Oppure parli in classe dell’Inquisizione rifacendosi a Luis de León, il teologo spagnolo agostiniano che – chiarisce – «per colpa di invidie e gelosie » viene accusato di eresia. Un’affermazione che letta oggi rimanda ai moniti di Francesco sulle divisioni nella comunità ecclesiale. Ad animare l’insegnante – scrive Milia – è l’idea che «nell’ordine e nell’obbedienza» si può «dissentire, indagare, non essere d’accordo, differenziarsi». Allora ecco l’introduzione in classe al gesuita Pierre Teilhard de Chardin, la cui opera era stata ritirata su indicazione del Sant’Uffizio. «Spero basti per evitarvi di dire scempiaggini», dice Bergoglio. Agli studenti illustra l’idea di evoluzione elaborata dal teologo; poi accenna alla noosfera. Non che i ragazzi capiscano molto, ammette Milia. Ma, dopo quella mattina insolita, uno di loro,
Mario Diez, divora
L’ambiente divino dell’antropologo francese. E confiderà da adulto: «Non mi sono mai sentito solo di fronte a un testo. C’erano sempre gli insegnamenti di Bergoglio». Imprevedibile è anche la lettura di un rapporto medico sulla crocifissione di Gesù: si fa riferimento al
flagellum o all’asfissia. «L’arte ha stereotipato la croce fino a trasformarla in oggetto di bigiotteria», spiega il religioso in aula. E tornano alla mente alcune espressioni del pontificato (come quella sui «cristiani da pasticceria») che fanno presa. Altrettanto la fa nei ragazzi la lezione sull’amore che «non va confuso con i boleri o le telenovele», pungola il professore. Da buon gesuita si affida spesso all’ironia. Quando, il primo giorno di scuola, uno degli adolescenti gli fa notare di aver scelto un manuale «piuttosto spesso», replica: «Osservazione profonda. Continui così e ci colmerà della sua saggezza». Alla bidella un po’ irritata per il baccano della sua classe in biblioteca chiede un rimedio: «Che ne dice di appenderli per i pollici o qualcosa del genere?». Allo studente, talento nelle caricature, consegna uno schizzo con la sua faccia terrorizzata dopo la domanda trabocchetto al termine del bell’esame di riparazione: un modo divertente per comunicargli l’esito. Nel collegio la spinta “rivoluzionaria” di Bergoglio va oltre la sua classe. Due studenti, affascinati dai Beatles, vogliono mettere su una «band di capelloni» e lui li sostiene: anzi, fa mettere a disposizione gli amplificatori usati dal rettore e li fa esibire a scuola. Col risultato che uno degli aspiranti artisti, Pepe Cibils, sarà l’organista alla sua prima Messa. Ancora. In un istituto tutto maschile, il padre porta il genio femminile sul palcoscenico aprendo gli spettacoli annuali alle ragazze (e preannunciando la sua riflessione sulla valorizzazione della donna nella Chiesa). Sempre ricorrendo al teatro consente ai ragazzi di incontrare i testi dell’ateo Albert Camus mettendo in scena
I giusti. E uno dei suoi ex alunni,
Sereno Oscar Grassi, è adesso attore e regista a Washington. Nell’era Bergoglio all’Immacolata salgono in cattedra anche gli scrittori. Come
María Esther Vázquez che, dopo la lezione, il professore accompagna a casa degli studenti per proseguire il confronto, lasciando trasparire il suo approccio di prossimità che nelle telefonate da Papa troverà un sigillo. Certo il colpo da maestro rimane il ciclo di lezioni di
Jorge Luis Borges. Quasi cieco, affronta sei ore di autobus per incontrare una classe dove «dei ragazzini avevano letto tanto della mia opera», riconoscerà l’autore argentino. La visita – nota Milia – è l’incontro fra la fede del giovane gesuita e l’agnosticismo della celebre penna. Di quell’avventura resta il libro
Racconti originali scritto da otto studenti di Bergoglio con la prefazione di Borges e un’introduzione pensata dal futuro Papa ma firmata dal prefetto degli studi. Agli adolescenti che non vedono di buon occhio lo “scippo”, replicherà: «Quando sono entrato nella Compagnia di Gesù, ho lasciato fuori ogni ambizione». Fra gli allievi che finiscono nel libro c’è anche Milia, «pecora nera» su cui, però, il
maestrillo vede lungo. Perché, sostiene il giornalista, la sua pedagogia punta a rivelare il lato migliore di ogni ragazzo. Guai però a raggirare la fiducia del giovane professore. Ne sa qualcosa proprio Milia che viene rimandato in letteratura per non aver consegnato in tempo un compito. «L’ho fatto – svelerà il gesuita dopo l’eccellente esame – non per punirlo ma per fargli capire che quello che conta è il dovere compiuto ogni giorno». Quando Bergoglio lascia Santa Fé, ha in mano solo una valigia con qualche libro. E sembra quasi di vederlo mentre, da Papa, sale sull’aereo per il Brasile con una borsa nera dove ha il rasoio, il breviario, l’agenda e un testo da leggere.