Nel 1991, Franco Fortini – critico e poeta, all’epoca molto in voga in Italia – scrisse un articolo sull’opera in versi di Primo Levi, principalmente raccolta nel volume
Ad ora incerta (prima edizione del 1984); in quest’articolo, Fortini esprime il seguente giudizio: «questi versi non sono eccellenti anche se, come mi proverò a dire, ve ne sono che vanno letti con attenzione perché hanno una verità e un loro timbro da comunicarci». [...] Noto il tono di degnazione: «questi versi non sono eccellenti»; e, più avanti: «ci sono versi che hanno una loro verità e un loro timbro da comunicarci». E comunque, rincara poco dopo Fortini, questi versi sono, «nella loro maggioranza deboli in quanto versi, in quanto cioè si presentano come iscritti nel genere che nel nostro e anche nel passato secolo è quello delle cosiddette “poesie”», concludendo: «credo che a Levi mancasse – e lo sapeva benissimo – un’attrezzatura retorica capace di reggere in versi i temi diaristici e aneddotici che gli erano più congeniali».Ma ora sulle conoscenze letterarie di Primo Levi sappiamo molto di più di quanto ne sapesse Fortini: basta guardare le sue citazioni per vedere che non può essere definito digiuno di poesia chi sa recuperare, nei suoi versi, Catullo, Lucrezio, Heine, Coleridge, Rilke, Eliot, Trakl, Celan, oltre, naturalmente, il prediletto Dante.Il richiamo di Fortini al genere è giusto, ma sintomatico della cultura non già di Levi, ma sua personale. Fortini, infatti, non ha nessuna idea del genere poetico cui Levi si riferisce perché è lui stesso culturalmente troppo legato alla tradizione petrarchesco-leopardiana: questo legame ha prodotto in lui una sordità a qualunque evasione dalle linee tradizionali della poesia italiana. È quasi incredibile che un poeta come Fortini, aggiornato su tutte le novità europee, sia poi sempre rimasto sostanzialmente succube della nostra tradizione.Caratteristico, a questo proposito, il commento alla poesia
Shemà, che Levi volle in apertura del suo primo romanzo,
Se questo è un uomo (da notare che il titolo stesso del romanzo è tratto da un verso di questa poesia). Scrive Fortini: «la forza di questi versi mi pare concentrarsi nell’uso di un lessico antiquato e nobile per un tema, anzi per una intimazione, che è di feroce attualità». Fortini parla di «lessico antiquato e nobile»: ma antiquato rispetto alla lingua italiana? Altro che antiquato! Quello di Levi è in realtà un lessico millenario: i testi che subito citerò a raffronto provengono infatti dal Deuteronomio e dal Libro dei Numeri, che i biblisti datano circa al 600 a.C.In questa poesia Levi combina infatti passi dei due libri biblici, riecheggiando così lo
Shemà, la preghiera che, sulla scorta di quegli stessi libri, gli ebrei hanno adottato come formula d’espressione dell’unità di Dio, e perciò come formula identitaria: qualunque ebreo – anche se non praticante, anche se convertito – si ricorda dei versetti dello
Shemà. Gli ebrei partivano sui carri che li avrebbero portati ad Auschwitz, recitando lo
Shemà.
Shemà vuol dire «ascolta»: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno». La preghiera così prosegue: «ama il signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza […] e dimorino queste parole, che oggi ti comando, nel tuo cuore, e inculcale ai tuoi fi glioli e ragionane quando tu sarai a sedere in casa tua e quando tu camminerai per via e quando tu giacerai e quando ti leverai». Ebbene, tutte queste espressioni sono riecheggiate, anche se con un senso completamente diverso, da Primo Levi proprio nella terza parte della sua poesia dove, oltre a invitare a considerare la vita terribile che conducevano gli internati di Auschwitz, dice: «Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via / Coricandovi alzandovi: / Ripetetele ai vostri figli».«Scolpitele» e «ripetetele»: l’obbligo, posto dal Deuteronomio, di pensare continuamente a Dio viene dunque capovolto da Levi nell’obbligo di pensare all’orrore della deportazione e dell’annientamento degli ebrei: nell’obbligo della memoria. Da una parte ci siete voi, nelle vostre case tiepide e sicure, dall’altra questi uomini disumanizzati e queste donne disumanizzate di cui Levi descrive la situazione nel lager perché resti per sempre impressa nel cuore di chi ha la fortuna di vivere dopo quegli orrori. Alle immagini puramente descrittive si mescolano quelle con implicazione morale: «Considerate se questo è un uomo / […] / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna / Senza capelli e senza nome /Senza più forza di ricordare». [...] Questo tono imperativo, freddamente imperativo, è assai lontano – si direbbe – dal tono comunicativo e pacato tipico della scrittura del Levi romanziere. È il tono ingiuntivo dei Profeti, e del resto, tutte le poesie di Primo Levi hanno qualcosa che ci porta fra i salmi e i libri profetici: «Anch’io ho sangue di profeta, come ogni figlio d’Israele, e ogni tanto gioco a fare il profeta». Ma, a ben guardare, il soggetto che qui rivolge le sue minacce, e preannuncia conseguenze orribili a chi non si ricorda della
Shoah, non è Levi ma Mosè, perché nel Deuteronomio, e dunque anche in quel punto dello
Shemà, a parlare è proprio Mosè. Per di più, nei versetti del Deuteronomio precedenti a quelli che lo
Shemà riprende venivano elencati i Dieci comandamenti: e dunque, i Comandamenti e l’obbligo di pensare, dovunque e in qualunque luogo, a Dio, obbligo che in Levi viene poi trasformato nel modo appena richiamato.